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La forza silenziosa delle donne rifugiate Rohingya

 “Le donne hanno potere, come gli uomini. E le donne possono avere un ruolo importante nella loro comunità.” 

Quattro anni fa, queste parole essenziali hanno cambiato la vita di Sajida, una giovane donna di 25 anni, rifugiata Rohingya nei campi di Cox’s Bazar, in Bangladesh.

Dopo anni di crescente repressione e violenza nel suo Paese, il Myanmar, culminati nella fuga di 740.000 Rohingya, in quello che è stato uno dei più rapidi e massicci movimenti forzati di popolazione, Sajida e la sua famiglia hanno trovato rifugio in Bangladesh nel 2017. Dopo giorni di cammino, sono arrivati nei campi profughi sorti oltre confine.  Abbiamo lasciato il nostro Paese per salvarci la vita,” ricorda Sajida, ripensando a quel viaggio straziante. 

In Bangladesh, Sajida e le sue due sorelle si sono presto rese conto che la vita nei campi rifugiati densamente popolati poneva enormi sfide, soprattutto per le donne. Nei campi si garantivano cibo, alloggio e assistenza sanitaria, ma la comunità Rohingya, ancora segnata dal trauma dello sfollamento, comprese presto l’importanza dei servizi dedicati alla salute mentale e alla sicurezza, fondamentali per costruire protezione e resilienza a livello comunitario. 

Nell’ambito di queste iniziative di sensibilizzazione, Sajida fu invitata a partecipare a un incontro informativo per donne presso un centro vicino alla sua tenda. Lì, seduta tra vicine e amiche, ascoltò un messaggio che la colpì profondamente: le donne hanno potere, anche in una società profondamente patriarcale, e ancora di più quando imparano a canalizzare la propria energia e a unirsi alla comunità per ottenere sostegno. 

Fino a quel momento mi arrabbiavo facilmente, ero sempre pronta a reagire in modo aggressivo a ciò che mi succedeva intorno,” racconta Sajida. “Quegli incontri mi hanno insegnato non solo a gestire meglio le mie emozioni e la rabbia, ma anche come poter contribuire positivamente alla mia comunità. 

Motivata dal desiderio di fare la differenza, Sajida si è unita a SASA! Together, una rete di supporto per le donne della comunità. Quattro anni dopo, è diventata facilitatrice dei gruppi di SASA! e lavora come volontaria nella prevenzione, guadagnando un piccolo stipendio che le consente di aiutare la sua famiglia. Andando di porta in porta, Sajida sensibilizza i rifugiati su temi cruciali come i matrimoni precoci, la disuguaglianza e la violenza di genere. 

Oggi vediamo molte più donne che sanno cos’è la violenza di genere, che certi comportamenti non sono accettabili e, soprattutto, dove cercare aiuto se ne sono vittime,” racconta. “Sono più sicure nel rapporto con i figli e più capaci di risolvere in modo costruttivo i conflitti con i mariti. Ma soprattutto, hanno acquisito una maggiore consapevolezza del proprio valore e del contributo che danno alle loro famiglie. Campo dopo campo, portiamo avanti questo cambiamento. 

Condividendo la sua esperienza e la nuova consapevolezza, Sajida ha trovato uno sfogo per la rabbia e la frustrazione che provava al suo arrivo in Bangladesh. Per anni aveva associato l’essere donna a un destino di minori opportunità, sentendosi incapace di prendersi cura della sua famiglia. Oggi, grazie al suo lavoro e a un piccolo reddito, si sente più sicura di sé e più forte. 

Grazie al sostegno di donatori come la Cooperazione Italiana, programmi di sensibilizzazione come “SASA! Together” hanno raggiunto e cambiato la vita di molte donne come Sajida nel corso degli anni.  

Sajida sa bene quanto sia ancora fragile la condizione delle donne nei campi profughi, ma anche quanto siano cruciali i programmi dedicati alla loro protezione:  In questo momento, le persone che pensano a un matrimonio per la propria figlia bambina o che sono violente con le donne potrebbero fermarsi a riflettere, perché sanno che organizzazioni come l’UNHCR stanno osservando attentamente,” spiega. “E anche se qualcuno continua a farlo, succede molto meno di prima. Immaginate cosa accadrebbe se queste attività non ci fossero. 

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