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Foto © Matteo de Mayda / Contrasto per AICS

Ciuffi di amaranto e altre ricette (non solo manioca)

In Centrafrica i contadini stanno tornando nei campi dopo anni di violenze. Ma contro le malnutrizione non basta coltivare. Siamo andati a vedere cosa sta accadendo

“Foglie di manioca acqua e sale non bastano” sorride Laeticia Grengou, 29 anni, senza perder di vista una padella sul fuoco rigonfia di ciuffi di amaranto. Siamo nella Lobaye, una regione del sud del Centrafrica che digrada verso il Congo. Su gonne con motivi tradizionali, fantasie d’azzurro, rosso e giallo, spiccano magliette bianche con slogan in lingua sango: “Teno a kobe ndende a sara nzoni na seni ti zo”, vale a dire “sull’alimentazione è il momento di cambiare”.

In un Paese ricco di diamanti, oro e uranio ma avvelenato da un conflitto civile che dal 2013 ha provocato migliaia di morti e costretto oltre un milione di persone a lasciare le proprie case, quella contro la fame resta una lotta quotidiana. Lo si vede nel Complexe Pédiatrique di Bangui, un ospedale sostenuto dall’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo (un milione e 600mila euro in tre anni) e dall’Unione Europea (quattro milioni per i prossimi tre): il reparto malnutriti è sempre più affollato perché l’assistenza è gratuita e, pur tra mille difficoltà, sono disponibili le medicine e gli alimenti necessari per le terapie. Fuori della capitale la situazione non è migliore. I ribelli della Seleka, un’alleanza di gruppi armati nata nelle regioni del nord-est ai confini con Ciad e Sudan, non si sono fermati dopo aver preso Bangui e costretto alla fuga il presidente François Bozizé. I reparti più avanzati si sono spinti fino alla Lobaye, nella “brousse” dove piste sterrate sono inghiottite dalle foreste. Anche in questa regione abitata da comunità bantu, perlopiù cristiane, feudo delle milizie Anti-balaka, il rischio di incursioni e violenze ha precluso a lungo l’accesso ai campi.

 

 

Ora l’emergenza sta rientrando e la strada che da Bangui porta a Mbaiki, il capoluogo regionale, situato a circa tre ore di automobile dalla capitale, è considerata tra le meno insicure. Ci sono insomma le condizioni per ripartire, spiega Laeticia, nel curriculum una laurea in Scienze dell’alimentazione, nel presente e nel futuro un ruolo da “capo progetto” con l’ong italiana Coopi. “Bisogna diversificare la dieta” ripete quasi fosse una mantra, parlando di “vitamine” e “sali minerali”. Prendete l’amaranto, davvero un paradosso: qui la pianta cresce spontanea ma non è mai entrata nella cultura alimentare nonostante ci sia bisogno di calcio, ferro e tanto altro. L’ostacolo sono spesso le abitudini e la mancanza di conoscenze.

È per questo che Coopi, che non ha lasciato il Centrafrica nemmeno quando tra diamanti e miseria avanzavano i ribelli, sta puntando molto sulle donne. Sono loro, per capacità di relazione e ruolo nei villaggi, la catena di trasmissione necessaria per far passare il messaggio. Finora hanno coltivato quasi sempre e solo manioca e igname, un tubero simile alle patate dolci, dall’apporto proteico rilevante ma privo di aminoacidi essenziali, dunque da abbinare con altri cibi. A Mbaiki, all’ombra di un albero di mango, con la loro maglietta bianca, le cuoche si scambiano consigli mentre pentole e padelle borbottano sul fuoco. Sono 25 e saranno proprio loro, nei prossimi mesi, a formare oltre 340 agricoltori. Lo faranno una volta tornate nei villaggi d’origine, in sei differenti Comuni della Lobaye, dove saranno per altro distribuiti kit per contadini e allevatori, semi di sesamo e mais, materiali per la costruzione di pollai, granai o bacini per la piscicoltura. “Spiegheranno che le foglie di manioca vanno mangiate insieme con altri alimenti” riprende Laeticia: “Qui abbiamo arachidi, olio di palma o ‘ciboulette’, come è conosciuta l’erba cipollina”.

Il progetto, finalizzato al “supporto alla resilienza degli agricoltori e degli allevatori vulnerabili”, è frutto di un impegno a 360° dell’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo (Aics). “Un’attenzione particolare è dedicata alle donne, in particolare rispetto alle tecniche di produzione, alla governance e alle tecniche di commercializzazione” spiega Marco Barone, responsabile dell’ufficio di Bangui, inaugurato nel 2016. “La logica resta quella dello ‘champ école paysan’, l’incontro di comunità favorito e guidato da un tecnico agricolo o zootecnico che svolge il ruolo di facilitatore durante la formazione”. Anche nella Lobaye arrivano le notizie del disastro del Boeing dell’Ethiopian Airlines, 157 vittime di 33 nazionalità, otto italiani, Paolo Dieci e altri cooperanti impegnati con l’Africa. A Mbaiki il senso dell’impegno non viene però meno, anzi si rafforza. Laeticia e i colleghi di Coopi hanno un budget di 500mila euro e nove mesi di tempo, ma guardano già oltre: “Qui c’è tanto da fare”.

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