
Finance for Development 4, in attesa di una riforma finanziaria per lo sviluppo
Fuori la temperatura ha superato i 45°C al suolo. Dentro l’atmosfera è rimasta tiepida. Il tentativo di rilanciare il consenso multilaterale attorno all’urgenza di una riforma dell’architettura finanziaria globale con la Quarta conferenza delle Nazioni Unite sul finanziamento allo sviluppo (FfD4), conclusasi il 3 luglio in una caldissima Siviglia, ha generato poco interesse mediatico e timido entusiasmo nel mondo della cooperazione e delle organizzazioni internazionali.
Era la prima volta che il mondo della finanza per lo sviluppo si dava appuntamento dall’acclamata Agenda di Addis Abeba del 2015, il quadro multilaterale che mirava a orientare l’intero sistema finanziario globale verso il raggiungimento degli Obiettivi di sviluppo sostenibile (SDGs).
Come racconta l’analista Valeria Zanini, presente a Siviglia, “i dati restituiscono l’immagine di un sistema sotto pressione. Il divario annuale per finanziare gli SDGs ha superato i 4.000 miliardi di dollari (UN 2024). Solo il 16% dei target è oggi in linea con le tempistiche previste, e in oltre 50 paesi a basso reddito la spesa per interessi sul debito eccede quella per sanità e educazione”. A cui poi vanno assommati i noti tagli agli APS − non solo da parte degli Stati Uniti ma anche di diversi paesi OCSE, e il crollo degli investimenti infrastrutturali nei paesi in via di sviluppo, scesi del 35% rispetto ai livelli pre-Covid secondo i dati presentati dal segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, all’apertura del Business Forum di FfD4.
Il documento siglato al summit F4D, dal poco entusiasmante titolo Compromesso di Siviglia cerca di rilanciare l’impegno allo sviluppo promuovendo strumenti finanziari ampliamente discussi negli ultimi anni: sospensione automatica del servizio del debito in caso di shock, meccanismi di conversione del debito in investimenti per lo sviluppo sostenibile (debt swaps) e uso strategico delle banche multilaterali di sviluppo per attenuare il rischio finanziario e attrarre capitale privato. Una riforma finanziaria che passa inevitabilmente dalla riforma ONU, che avrà il suo showdown questo autunno ad UNGA80, e che quindi ha prodotto un testo zoppo, senza natura vincolante e senza target misurabili, dove mancano completamente riferimenti operativi a processi paralleli (COP30, G20, riforma delle Banche multilaterali di sviluppo) che ne determinano un’evidente debolezza.
Al cuore del documento il tema della riforma del debito. In esso si riconosce esplicitamente la necessità di meccanismi più rapidi, trasparenti e inclusivi per la prevenzione e la gestione delle crisi debitorie. Accoglie con favore strumenti innovativi come la sospensione automatica del servizio del debito in caso di shock, i debt swaps orientati agli SDGs e l’uso strategico delle banche multilaterali di sviluppo (MDBs) per ridurre il rischio finanziario. Non sono mancati poi lanci di iniziative come il Borrowers’ Club, promosso da UNCTAD e African Development Bank, l’Alliance for Debt Clauses, sostenuta da Spagna, Colombia e Unione Africana, che mira a diffondere sistematicamente clausole di resilienza nei contratti di debito pubblico, per automatizzare la sospensione dei pagamenti in caso di eventi estremi e infine il Natural Prosperity Hub, sostenuto da Kenya, Costa Rica e altri, che propone un nuovo quadro multilaterale per la conversione del debito in investimenti per la resilienza climatica e ambientale, con supporto tecnico da parte delle Nazioni Unite.
Torna poi la discussione sulle metriche post-Pil, che dovrebbero fornire criteri di valutazione delle politiche economiche, diversi dalla mera quantificazione del valore aggregato di beni e servizi prodotti, includendo misure come il benessere umano, la resilienza, i servizi ecosistemici, eccetera. Ad oggi non esistono indicatori macroeconomici allineati all’agenda 2030. E meno che meno c’è il coraggio di discutere di queste tematiche nei grandi fora politici: G7, G20, Brics, Asean, African Union, EU. Un tema che dovrebbe invece raccogliere un amplio consenso della società civile e del mondo finanziario.
La questione in fondo è sempre una: la governance. Certo le Nazioni Unite rimangono centrali, ma faticano ad integrarsi con G20, FMI, Ocse, banche centrali e multilaterali. Servirebbe un’unica piattaforma di coordinamento internazionale. Ma su piatto le idee scarseggiano, la rendicontazione rimane complicata (si veda la climate finance) e non si vede all’orizzonte l’inizio di un processo 2030-2050 per finanziare lo sviluppo che si fondi su basi solide. «Alcuni barlumi arrivano dal sostegno esplicito a una Convenzione ONU sulla fiscalità internazionale, la creazione di coalizioni su leve fiscali solidali, la pressione verso nuovi standard globali per gli asset e la nascita di club di debitori sono tutti segnali di un riequilibrio nei rapporti di forza», commenta Zanini. «FfD4 ha mostrato che il dissenso sull’architettura finanziaria non riguarda solo il quantum di risorse, ma la natura stessa del sistema: chi lo guida, chi decide le priorità, come si distribuiscono rischi e benefici. È su queste fratture che si giocheranno i prossimi appuntamenti internazionali».
Un certo interesse l’ha generato la Sevilla Platform for Action, un quadro che raccoglie oltre 130 iniziative lanciate da stati, organizzazioni internazionali, fondazioni e società civile. L’obiettivo di questa piattaforma di convergenza è di passare dal dialogo all’attuazione attraverso azioni concrete replicabili, scalabili e condivise. Il segretariato ONU ha annunciato che la Platform sarà oggetto di aggiornamenti annuali a partire dal 2026, con un primo bilancio previsto nella sessione di follow-up dell’Assemblea generale.
Otto paesi, tra cui Francia, Spagna e Kenya, si sono riuniti a margine della conferenza per promuovere una tassazione dei biglietti aerei di classe superiore e dei viaggi con jet privati al fine di finanziare le azioni per il clima. La proposta cercherà consenso in vista del vertice sul clima COP30 di novembre per creare un’amplia alleanza per generare risorse tassando i ricchi viaggiatori. Forse un po’ poco per un evento che avrebbe dovuto cementare l’architettura finanziaria per i tre negoziati sulla natura e ridefinire l’approccio allo sviluppo e alla lotta alla povertà anche in chiave di sostenibilità ambientale.
Emanuele Bompan
Giornalista ambientale e geografo. Si occupa di economia circolare, cambiamenti climatici, green-economy, politica americana. È Direttore della rivista Materia Rinnovabile, collabora con testate come La Stampa, Nuova Ecologia e Oltremare. Ha scritto l’Atlante geopolitico dell’Acqua (2019), Water Grabbing – le guerre nascoste per l’acqua nel XXI secolo (2018), Che cosa è l’economia circolare (2017). Ha vinto per quattro volte l’European Journalism Center IDR Grant, una volta la Middlebury Environmental Journalism Fellowship, una volta la Google DNI Initiative ed è stato nominato Giornalista per la Terra nel 2015.
