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Le organizzazioni multilaterali e la cooperazione per lo sviluppo nell’era della globalizzazione 4.0: Il caso dei rapporti tra l’Unione Europea e la Banca Mondiale

Unione Europea e Banca Mondiale: il valore della differenza e i vantaggi dell’azione congiunta

Partner privilegiati in molteplici aree tematiche e geografiche, la Banca Mondiale e l’Unione Europea sono oggi i due maggiori attori multilaterali nell’ambito della cooperazione allo sviluppo1. Tutti gli stati membri dell’Unione sono membri della Banca Mondiale, anche se l’Unione non è rappresentata presso il Consiglio dei Governatori (Board of Governors, organo di direzione politica) e il Consiglio Esecutivo (Executive Board, organo di amministrazione) della Banca Mondiale2. Tuttavia, Commissione Europea e Stati membri UE sono, collettivamente considerati, il principale finanziatore della Banca Mondiale, in ragione delle quote azionarie sottoscritte (Stati membri)3 e dei contributi forniti attraverso i fondi fiduciari (sia Stati membri che Commissione). La elevata complessità delle catene di delegazione (dai cittadini alle agenzie governative – tramite il passaggio elettorale e parlamentare-, da queste alle organizzazioni internazionali, e tra organizzazione ed organizzazione, come nel caso della ‘delegazione ibrida’ tra Unione Europea e Banca Mondiale) ha in alcuni casi prodotto esiti meno che virtuosi. Alle tipiche patologie burocratiche di slacking e shirking, si aggiungono, nel caso della delegazione da stati a organizzazioni internazionali, problemi legati alla natura squisitamente politica della principalità, collettiva o multipla, e, nel caso della delegazione tra agenzie multilaterali, maggiori costi di coordinamento generati dalla interazione (talvolta sovrapposizione)4 tra sistemi di accountability ampi, complessi e notevolmente diversi tra di loro.

Critiche alla performance della Banca e dell’Unione nell’ambito della cooperazione allo sviluppo sono state mosse da più parti, e a più riprese nel corso degli ultimi venti anni. Si è notata la scarsa rappresentatività degli organi decisionali della Banca Mondiale, la rigidità dei suoi programmi di aggiustamento strutturale, e la attenzione minima alle ricadute sociali e ambientali dei progetti finanziati fino alle soglie del nuovo millennio. Similmente, l’UE è stata accusata di scarsa coerenza inter-settoriale tra le sue diverse policies (e di conflitto, talvolta, tra gli obiettivi della sua politica commerciale, da un lato, e di cooperazione allo sviluppo, dall’altro), di poca efficienza (risultati sul campo inferiori all’ammontare di risorse investito nella cooperazione internazionale), di inconsistenza tra obiettivi dichiarati ed esiti raggiunti.

Anche scontando buona parte di tali critiche, ed accettando la natura strutturale delle patologie della delegazione, segnatamente quando proiettate in ambito internazionale, esistono più ragioni che rendono l’operato di questi due ‘governatori globali’ fondamentale per il futuro delle politiche per lo sviluppo, e che depongono a favore del rafforzamento della loro cooperazione in questo ambito nel nuovo contesto globale. Sotto il profilo istituzionale, poi, come evidenziato dalla storia dei rapporti tra Unione Europea e Banca Mondiale negli ultimi venti anni, la ridondanza nelle catene di delegazione ha aperto la porta a sviluppi migliorativi della loro azione, sia autonoma che congiunta, contribuendo a modificare le geometrie e le modalità dell’azione multilaterale a sostegno dello sviluppo (Baroncelli 2019).

Dalla fine degli anni 2000, ed anche sulla scorta della pregressa interazione con la Banca Mondiale nel settore dei fondi fiduciari per lo sviluppo5, ad esempio, l’Unione Europea ha scelto di ampliare il ventaglio delle sue attività di cooperazione coi paesi partner, dando vita a propri strumenti finanziari di sostegno al miglioramento delle loro infrastrutture su base regionale, tramite la creazione di fondi misti (blending facilities) a marchio UE. Su impulso della DG Sviluppo della Commissione, e della sua agenzia EuropeAid, Bruxelles ha modellato questi schemi di finanziamento cooperativo in larga misura sulla falsariga dei fondi fiduciari a marchio Banca Mondiale, creandone in più parti del mondo: in Africa Sub-sahariana (AITF, 2007), nel vicinato (NIF, 2008), nei Balcani (WBIF, 2009), ma anche in Asia Centrale (IFCA, 2010), America Latina (LAIF 2010), Caraibi (CIF, 2012) e Pacifico (IFP 2012).

Le due organizzazioni si sono in questo senso avvicinate l’una all’altra rispetto alla consueta divisione del lavoro, che vedeva sostanzialmente la Commissione Europea (‘principale’ unico, nel caso di fondi single-donor, principale ‘multiplo’ nel caso di fondi multi-donor) conferire risorse alla Banca Mondiale (‘agente’), tramite il meccanismo dei fondi fiduciari (World Bank Trust Funds). Con la creazione dei fondi misti e delle blending facilities a marchio UE, e la partecipazione ad essi, tra gli altri, anche della Banca Mondiale in veste di finanziatore (uno dei ‘principali’, assieme agli altri donatori, sia pubblici che privati, che partecipano a quel particolare tipo di schema), i ruoli dei due ‘governatori globali’ sono divenuti in parte interscambiabili. Negli schemi a marchio UE di finanziamento misto allo sviluppo, infatti, il coordinamento finanziario è affidato alla Banca Europea per gli Investimenti (‘agente’), che risponde ai diversi Consigli di Direzione e Amministrazione (che sono specifici per ciascuna facility, ed in cui siede una pluralità di donors, pubblici e privati), ma la supervisione politica è nelle mani dell’Unione. Mentre i trust funds a marchio Banca Mondiale sono gestiti da una istituzione finanziaria, le blending facilities a marchio UE operano sotto la direzione di un attore eminentemente politico, che è anche in grado di mettere in gioco ingenti risorse finanziarie. Il salto di qualità compiuto dall’UE tramite la creazione di questi schemi permette a Bruxelles di sfruttare in maniera diretta la sinergia tra il proprio capitale politico e morale6, da un lato, e l’ampio sforzo finanziario da tempo sostenuto per la cooperazione allo sviluppo.

Dal canto suo, la Banca ha assunto un ruolo preminente rispetto all’UE in alcuni contesti fragili e ad alto livello di conflittualità, in momenti nei quali Bruxelles ha ritenuto di dover interrompere il sostegno diretto allo sviluppo (esempi di questo tipo sono il caso dei finanziamenti di alcuni programmi in Etiopia tra il 2005 ed il 2006, ed in Palestina tra il 2004 ed il 2006). Le garanzie fornite dalla Banca Mondiale, e la sua esperienza nella gestione degli aiuti in contesti fragili e post-conflict, hanno permesso all’Unione di mantenere il suo sostegno ai governi in carica tramite il meccanismo dei fondi fiduciari a marchio Banca Mondiale, ritirando però in via ufficiale il sostegno diretto (budget support) precedentemente fornito tramite strumenti di finanziamento e programmi europei (Baroncelli 2019). Ancora, anche dopo il loro l’ingresso nell’UE, alcuni nuovi stati membri (Romania, Bulgaria) hanno chiesto, ed ottenuto, assistenza dalla Banca Mondiale per la gestione dei fondi strutturali stanziati dall’UE, che non erano in grado di assorbire e spendere efficacemente entro le scadenze comunitarie, mettendo in forse la loro capacità di restare entro i parametri macroeconomici fissati da Bruxelles. Nell’arco degli ultimi venti anni, poi, la Banca ha ampliato i suoi ambiti di intervento, in settori un tempo esclusi dal suo raggio di azione, quali ad esempio quello della rule of law (attraverso l’enfasi sulla ‘buona governance’) negli anni 2000, o delle azioni per mitigare rischi ambientali, sanitari e finanziari, particolarmente dopo la crisi alimentare del 2007 e la crisi globale del 2008. Il suo ruolo di convenor globale e la sua expertise tecnica nella gestione di una molteplicità di rischi (inclusi quelli finanziari in paesi in via di sviluppo) hanno aumentato notevolmente la sua rilevanza nella fornitura dei beni pubblici globali (GPG, Global Public Goods), anche scontando l’accresciuto peso dei nuovi donatori (Cina in testa) e dei nuovi finanziatori regionali (Asian Infrastructural Investment Fund, New Development Bank, anche detta ‘BRICS’ Bank’, in aggiunta alle pre-esistenti banche di sviluppo regionale).

Multilateralismo e politiche per lo sviluppo nel nuovo contesto globale

Rispetto al passato, e tenendo conto anche delle recenti battute di arresto7, quale è il valore aggiunto che può essere apportato dall’azione di questi due ‘governatori globali’? Cosa è cambiato, in particolare, rispetto alle ondate di globalizzazione precedenti rispetto alla contemporanea versione 4.0?8 Quali le ragioni che rafforzano la causa del multilateralismo, e di una più robusta cooperazione tra UE e Banca Mondiale nelle politiche di cooperazione allo sviluppo?

Se paragonate al periodo immediatamente successivo alla Seconda Guerra mondiale, le condizioni socio-economiche globali sono certamente migliorate. L’aspettativa di vita è aumentata ovunque, come pure il reddito medio pro-capite. La povertà globale è calata. In termini aggregati, il progresso economico seguito alla apertura degli scambi prodottasi negli ultimi settanta anni è innegabile. Alcuni paesi, come le Tigri Asiatiche prima, la Cina e l’India poi, sono riusciti a crescere più in fretta di altri. Il progresso scientifico ha giocato un ruolo strategico in questo processo, generando miglioramenti di portata epocale in ambito sanitario. Innovazioni come la containerizzazione, prima, e le tecnologie digitali, poi, hanno ridotto sensibilmente i costi di trasporto e facilitato enormemente la trasmissione delle informazioni. L’allentamento nei vincoli alle transazioni tra contraenti di paesi o regioni diverse, ha accresciuto scala e la profittabilità degli scambi. Il miglioramento delle comunicazioni, e i minori costi legati alle infrastrutture di collegamento tra mercati un tempo segmentati, hanno favorito l’integrazione tra quelli e la creazione di nuovi mercati globali. La povertà estrema a livello globale è calata: se all’inizio degli anni Ottanta oltre il 40% della popolazione mondiale viveva in condizioni di povertà estrema, oggi questa percentuale è scesa sotto il 10%9. Questo calo si è prodotto in larga misura grazie ai traini indiano e, soprattutto, cinese. Tuttavia, mentre alcune regioni hanno goduto di miglioramenti marcati su questo fronte, altre, come l’Africa Sub-Sahariana, hanno sperimentato stalli o cali assai più contenuti. A oggi, la povertà estrema costituisce un problema primario per paesi ad alto tasso di conflittualità ed elevata fragilità socio-istituzionale, come la Nigeria, il Mali o il Niger. Di norma, in quei contesti di crisi, sfide politiche, militari e sociali si presentano connesse alla esigenza economica di fornire incentivi alla crescita e ridurre povertà e disparità.

I livelli di sperequazione interna, ed in particolare le differenze di reddito tra le fasce più abbienti e quelle più povere, sono cresciuti in maniera evidente anche nei paesi industrializzati. Come nota Piketty (2014), il gap di ricchezza tra il primo 1% della popolazione e le fasce più povere al quale assistiamo in Europea occidentale e negli Stati Uniti si è prodotto a partire dalla metà degli anni settanta del secolo scorso. La crisi dell’economia globale del 2008, la recessione che ne è seguita, e le risposte non sempre efficaci dei diversi governi hanno contribuito ad esacerbare ulteriormente le ricadute sociali e politiche di quei divari, aprendo la strada, tra le altre cose, anche agli esiti sovranisti, populisti e protezionisti in atto su entrambe le sponde dell’Atlantico.

Il divario si è ampliato anche a livello globale (ossia tra individui appartenenti a fasce di reddito diverse), con ricadute negative sul benessere dei più poveri. Secondo il Rapporto Oxfam ‘Public Good or Private Wealth?’, pubblicato come di consueto in concomitanza con l’apertura del World Economic Forum che si è tenuto a Davos tra il 22 ed il 25 gennaio 2019, 26 individui detenevano nel 2018 una quota di ricchezza pari a quella posseduta dai 3,8 miliardi di individui che costituiscono il 50% più povero della popolazione mondiale. L’attendibilità del dato è stata messa in discussione (come anche in passato per precedenti edizioni del Rapporto), e l’entità di quella cifra ridimensionata (Forstater and Ramachandran 2016; Matthews 2019). Anche tenendo conto delle correzioni, tuttavia, il divario resta significativo: 147 miliardari oggi (non 26) possiedono l’1 per cento della ricchezza globale. Un numero un poco più ampio, 42 milioni di individui (lo 0.8 % sul totale mondiale) controlla il 44.8% della ricchezza globale. Di contro, 3,4 milioni di persone (poco meno di metà della popolazione mondiale) vivono con meno di 5.50 dollari al giorno (Oxfam 2019, 11). Al tasso di crescita corrente dell’economia globale non sarà possibile eliminare la povertà estrema entro il 2030, come invece auspicato negli obiettivi ‘gemelli’ della Banca Mondiale (sradicamento della povertà estrema e sostegno alla prosperità condivisa), a meno di non aumentare il tasso di crescita nei redditi del 40% più povero al disopra di quelli del restante 60% della popolazione mondiale (World Bank, 2018, 2).

Da un lato la questione è eminentemente redistributiva, come anche ammesso dai vertici del World Economic Forum 2019, che hanno richiamato alla necessità di moralizzare (o ri-moralizzare) la globalizzazione dei giorni nostri. Dall’altro, tuttavia, una piena inclusione di chi è stato svantaggiato dalla frammentazione e ri-localizzazione delle attività produttive lungo catene del valore globali, ed una più equa distribuzione dei dividendi della globalizzazione 4.0 passa anche attraverso la diffusione delle innovazioni produttive ai mercati emergenti ed ai sistemi in transizione, e il loro adeguamento ai nuovi modelli di creazione del valore. Per poter esercitare effetti di rilievo, ed essere assorbiti con profitto, i vantaggi offerti dalla globalizzazione 4.0 abbisognano di sistemi di regole condivise tra i diversi attori, e di contesti domestici il più possibile stabili in cui istituzioni rappresentative permettano agli interessi (della società civile, del settore privato) di attivarsi per creare dinamiche virtuose per l’intero paese.

In contesti ad elevata fragilità istituzionale, in situazioni di conflitto e/o violenza diffusa, quelle sfide sono ulteriormente ampliate, e il costo di esclusione dal sistema di scambi globale maggiore. Pragmaticamente, in casi simili gli interventi di cooperazione allo sviluppo non possono prescindere dal carattere multidimensionale delle sfide cui gli operatori internazionali si trovano difronte. Non di rado, alla multidimensionalità tematica delle azioni di sostegno allo sviluppo, si aggiunge la sfida di interventi intertemporali, che contemperino il breve, il medio, ed il lungo periodo. Il cammino compiuto dall’Unione Europea e dalla Banca Mondiale nell’ambito degli interventi in zone e paesi fragili e ad alta conflittualità e rischio di violenza, gli aggiustamenti e i miglioramenti adottati nei programmi, specifici, congiunti e paralleli, permettono a questi due ‘governatori globali’ di mettere a disposizione, oltre al convening power, alla notevole quota di risorse finanziarie e alle garanzie fiduciarie (cruciali per coinvolgere gli investitori privati) un sistema di collaborazione particolarmente denso. Un esempio tra i molti è costituito dai progetti finanziati congiuntamente nei Balcani occidentali, nell’ambito del Western Balkan Investment Framework, che si inseriscono in un sentiero di cooperazione di lungo corso tra l’Unione e la Banca, originato nell’ambito dello Stability Pact per l’Europa Sud-Orientale. La visione ed e l’impulso politico europei hanno permesso di affiancare al sostegno all’integrazione economica di quell’area l’incentivo dell’ingresso nell’Unione. Le difficoltà incontrate lungo il cammino non tolgono merito all’idea europea che sia possibile e doveroso offrire a paesi usciti dal conflitto ed ai loro cittadini migliori opportunità per perseguire congiuntamente crescita economica e apertura democratica tramite l’integrazione su base regionale. Le garanzie fiduciarie nella gestione dei prestiti e l’expertise settoriale nelle azioni di sostegno allo sviluppo in aree post-conflict fornite dalla Banca, costituiscono a tutt’oggi il versante tecnico di quella sinergia.

Il valore aggiunto derivante da una più profonda collaborazione tra Unione e Banca nell’era della globalizzazione 4.0 riguarda, infine, la valenza fondante della prassi multilaterale, che è parte del DNA di entrambe le organizzazioni. Pur soffrendo di evidente asimmetria quanto a meccanismo di rappresentanza degli stati membri (che operano secondo il meccanismo del voto collegiale), la Banca Mondiale è a oggi assai più rappresentativa delle banche di sviluppo regionali o di fora negoziali e di confronto ai quali si accede per cooptazione, su invito o addirittura a pagamento (il gruppo dei ‘G’ nelle sue varie geometrie nei primi due casi, il World Economic Forum in tutti e tre). Per mantenere credibilità, e colmare il deficit di legittimità di cui soffre, essa dovrà però superare gli stalli che hanno contraddistinto i tentativi di riforma della sua governance in passato (2008-2010), proseguendo lungo il sentiero della inclusione di un più elevato numero di stakeholders tra i suoi partner significativi (con particolare riferimento a organizzazioni della società civile, in aggiunta agli interessi produttivi organizzati).

I vantaggi dal rafforzamento del multilateralismo sono poi particolarmente importanti nella lotta alla povertà estrema e nelle azioni di condivisione dei frutti della nuova globalizzazione. In aggiunta ai ‘perdenti della terza ondata’ (i lavoratori a bassa qualificazione entro i sistemi industrializzati dei principali donatori a democrazia matura), ora si profilano nuovi scontenti, tra le file dei lavoratori qualificati entro il settore dei servizi. L’aumento della fornitura trans-continentale di servizi qualificati reso possibile dalla rivoluzione digitale inaugurata con la industrializzazione 4.0 ha reso vulnerabili anche i ‘colletti bianchi’, aumentando la loro richiesta di tutele e riducendo la loro disponibilità a fornire risorse per la cooperazione allo sviluppo. Associato alla crescita in numero ed intensità delle crisi finanziarie, questo ulteriore impoverimento delle fasce medie prodottosi nei sistemi avanzati ha generato un ulteriore spostamento in senso protezionista e populista degli elettorati in un elevato numero di paesi donatori. Alla luce di questi spostamenti, la collaborazione tra fora multilaterali a vocazione e membership parzialmente sovrapponibile (Banca, Unione) può rappresentare la chiave di volta per concordare in maniera negoziata azioni di sostegno mirate, agli individui poveri nei contesti altamente instabili, ed a quelli indigenti nei paesi stabili e dotati di istituzioni rappresentative. Se la Brexit imprimerà una battuta d’arresto severa alla soluzione sovra-nazionale a cui l’Europa post-1945 ha saputo dare vita, la via inter-governativa fornita dalla Banca Mondiale deve restare opzione privilegiata nell’ambito delle politiche di cooperazione allo sviluppo. Un rafforzato coordinamento tra le due istituzioni nelle zone ad elevata conflittualità è passaggio fondamentale per sradicare la povertà estrema e alleviare il divario di reddito tra chi ha e chi non ha, e per contribuire a disinnescare le emergenze migratorie, sociali e politiche che interessano Europa, Africa e Medio-Oriente. Una evoluzione in questo senso avrebbe il merito di indicare sia ai più scettici tra i donatori tradizionali (USA, sovranisti tra i partner Europei) che ai nuovi donatori (Cina e Russia, in particolare), il grande potenziale, e, di converso, l’elevato ‘costo di uscita’, che la via multilaterale allo sviluppo ha acquisito nel nuovo contesto globale.

Riferimenti

  • Baroncelli, E. (2019) The European Union, the World Bank and the Policymaking of Aid: Cooperation Among Developers, London and New York, Routledge.
  • Deaton, A. (2013) The Great Escape. Health, Wealth and the Origins of Inequality, Princeton, Princeton University Press.
  • Forstater, M. and Ramachandran, V. (2016) ‘Davos Dreaming: Development Without Development’, Center for Global Development, Blog Post, 21.01.2016 available here
  • Matthews, D. (2019) ‘Are 26 billionaires worth more than half the planet? The debate, explained’, Future Perfect Newsletter, Vox, 22.01.2019, available here
  • Oxfam (2019) ‘Public Good or Private Wealth?’, Rapporto Annuale, disponibile qui;
  • Piketty, T. (2014) Capital in the XXI Century, Cambridge, Mass. and London, England, Belknap Press.
  • World Bank (2018) Poverty and Shared Prosperity 2018. Piecing Together the Poverty Puzzle, Washington, DC, The World Bank Group.

 


1 Nel 2017 l’UE e gli stati membri hanno fornito quasi il 60% del totale mondiale degli aiuti pubblici allo sviluppo (Commissione Europea 2017). Principale banca di sviluppo multilaterale, e la sola a vocazione globale, dal 1946 ad oggi la Banca Mondiale ha finanziato con i propri prestiti progetti di sviluppo per oltre 500 miliardi di dollari USA, a fronte di 14 miliardi in quote azionarie sottoscritte dagli stati membri (Banca Mondiale 2017). Nonostante l’aumento dei finanziamenti delle banche di sviluppo regionale verificatosi dopo il 2010, la Banca Mondiale detiene la maggioranza relativa sul totale dei prestiti multilaterali per lo sviluppo (40%). Il termine Banca Mondiale designa solitamente le agenzie IBRD (Banca Internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo) e IDA (Agenzia Internazionale per lo Sviluppo). Oltre ad esse, il Gruppo Banca Mondiale (WBG) comprende anche l’International Financial Corporation (IFC), la Agenzia Multilaterale per le garanzie agli Investimenti (MIGA) e l’ICSID (Centro Internazionale per la Risoluzione delle Controversie sugli Investimenti).

2 La ragione di questa anomalia, in virtù della quale il maggior finanziatore collettivo non è rappresentato entro gli organi di direzione e amministrazione della Banca è duplice. Da un lato la Banca che annovera solo stati tra i suoi azionisti (è sì una banca, ma il suo azionariato è costituito da stati sovrani, e solo da quelli). Dall’altro la competenza dell’Unione Europea in materia di cooperazione allo sviluppo è condivisa, tra quella e gli stati membri, e non esclusiva, come ad esempio nel caso della politica commerciale.

3 Nel 2017 la quota dei diritti di voto sul totale detenuta dagli stati UE presso il Consiglio Esecutivo della Banca ammontava al 27.53%, a fronte del 16.39% degli USA, 7.07% del Giappone e 4.56% della Cina.

4 Le membership delle due organizzazioni sono solo imperfettamente sovrapposte (i 28 membri UE sono un sottoinsieme dei 189 membri della Banca Mondiale).

5 Questi schemi di finanziamento innovativo si inseriscono – comunque – nel più ampio contesto dell’impulso dato dalla Dichiarazione di Parigi sull’efficacia dell’aiuto allo sviluppo (2005), e della Agenda di Accra (2008) e Partnership di Busan (2011).

6 Il riferimento qui è ai meccanismi di emulazione attivati dal ‘modello europeo’ in paesi terzi che vedono l’Unione come un caso unico di pacificazione tra stati con interessi di sicurezza in conflitto (Francia, Germania) tramite l’integrazione economica e politica.

7 Il riferimento è qui alla imminente Brexit e alle improvvise dimissioni del Presidente della Banca Mondiale, Jim Yong Kim, rassegnate a inizio gennaio 2019, dopo solo un anno dalla rielezione al suo secondo mandato.

8 La prima ondata viene fatta coincidere con la Prima Rivoluzione industriale e l’utilizzo dell’energia generata dal vapore (1820-1914), la seconda coincide con il periodo successivo alla seconda guerra mondiale, la terza (c.d. ‘iperglobalizzazione’) viene fatta cominciare negli anni novanta del secolo scorso, e coinciderebbe con l’emergere delle potenze cinese e indiana e l’avvento di internet, non andando oltre la integrazione globale dei mercati dei beni. Sotto il profilo economico, la ‘globalizzazione 4.0’ sarebbe sostanziata primariamente dalla creazione di un mercato globale dei servizi, e dagli effetti della digitalizzazione sugli scambi in quell’ambito.

9 La condizione di povertà estrema qualifica l’individuo che ha a disposizione meno di 1,9 dollari USA al giorno. Tuttavia, tale soglia è stata rivista e modificata nel tempo. La soglia di povertà estrema nei paesi a medio reddito è stata fissata di recente dalla Banca Mondiale a 5,5 dollari USA al giorno. Per una riflessione sul punto si veda Deaton (2013).

Informazioni sull'autore

Professoressa Associata in Scienza Politica presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Bologna, è stata consulente presso la Banca Mondiale tra il 2001 e il 2006 in materia di tariffe e politica commerciale, e di diritti di proprietà intellettuale dei paesi in via di sviluppo, come membro del Trade Group all’interno del Dipartimento di Ricerca e Sviluppo della Banca, e per le Unità regionali MENA, SSA ed ECA. Esperta di International Political Economy, si interessa di governance economica globale, con particolare riferimento alle politiche di cooperazione allo sviluppo ed ai rapporti tra Unione Europea e Banca Mondiale. Si è occupata, tra le altre cose, del rapporto tra commercio, democrazia e guerra, e del ruolo della diplomazia commerciale nei rapporti tra India e Pakistan.

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