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Nuovi tentativi di democratizzazione: il “revival” delle rivoluzioni colorate?

Le recenti vicende che hanno interessato prima la Bielorussia e, successivamente, il Kazakhstan all’interno dello spazio post-sovietico, richiamano l’attenzione degli studiosi e degli osservatori sulla fenomenologia delle Rivoluzioni colorate, verificatesi, con vari esiti, in altri sistemi politici della medesima regione nei primi anni ‘2000.

Il 2 novembre del 2003 si tennero in Georgia le elezioni parlamentari. A trionfare fu il partito del Presidente Eduard Shevardnadze, ma il fronte democratico di opposizione contestò il risultato. La folla scese in piazza a protestare contro i brogli elettorali e il 23 novembre il Presidente fu costretto a dimettersi. Il 4 gennaio del 2004, il democratico filo-occidentale Mikheil Saakashvili, il leader della Rivoluzione delle Rose, trionfò alle elezioni presidenziali con il 96% dei consensi.

Il 21 novembre 2004 in Ucraina si celebrò il secondo turno delle elezioni presidenziali. Vinse il leader del Partito delle Regioni, il filo-russo Viktor Yanukovych, referente politico della nomenclatura economica di Donetsk. Il suo sfidante, il filo-occidentale Viktor Yushchenko, si appellò alla popolazione, denunciando l’accadimento di numerosi brogli. Una folla pacifica scese in Maidan (piazza) Nezalezhnosti a Kiev per protestare contro il risultato e rimase lì per quasi un mese, sfidando il famigerato Generale Inverno. Era la Rivoluzione Arancione. La Commissione Elettorale Centrale ordinò la ripetizione del ballottaggio. Il 26 dicembre 2004 Viktor Yushchenko fu eletto Presidente.
A marzo del 2005, in Kirghizistan, si ebbe il secondo turno delle elezioni parlamentari. Si affermò nettamente il partito del Presidente Askar Akayev, ma le opposizioni contestarono il risultato. Si mobilitarono le piazze ed iniziò così la Rivoluzione dei Tulipani. Akayev fuggì in Russia e da lì inviò le sue dimissioni. Gli succedette il leader della rivolta (anch’essa relativamente pacifica), Kurmanbek Bakiyev.

Nell’arco di appena due anni, quindi, si concentrarono i primi tre più importanti movimenti democratico-rivoluzionari mai avvenuti dalla fine dell’Unione Sovietica. Momenti che furono giornalisticamente battezzati con l’espressione Rivoluzioni Colorate. Già la brevissima recensione di Robert Legvold al libro di Lincoln A. Mitchell, The Color Revolutions ben sintetizza l’errore linguistico prodotto dai problematici referenti empirici su cui poggia l’etichetta: in primo luogo, ad eccezione della rivoluzione ucraina, il simbolo delle altre non fu un colore, ma un fiore (la rosa e il tulipano); in secondo luogo, in realtà, non ci si è mai trovati dinanzi a dei veri e propri momenti rivoluzionari e democratici, quanto piuttosto, a dei più semplici mutamenti nella struttura dell’élite di governo.

L’analisi politologica delle Rivoluzioni Colorate ripropose, come spesso era già avvenuto all’interno della comunità scientifica, quello che ha da sempre rappresentato uno degli eterni dilemmi nello studio dei processi di democratizzazione: adottare un approccio puramente politico, actor-centered, volontaristico oppure rifarsi ad una visione strutturalista, in cui il risultato politico è determinato o comunque fortemente condizionato da tutta una serie di elementi extra-politici interni al sistema? Attraverso uno studio dei rapporti di causalità, la prima prospettiva guarda agli agenti, ai leader, alle élites (e in tempi più recenti, alle masse), alla loro capacità di provocare ed ottenere il cambiamento democratico. La seconda, invece, si focalizza sulle correlazioni tra fenomeni politici interni al Paese ed elementi “strutturali”, interni o esterni a ciascun sistema-Paese (la società, l’influenza dell’economia, la cultura, la storia di una nazione, le strutture dello Stato quali la magistratura, la polizia o l’esercito, il quadro delle relazioni internazionali).

Lo studio delle Rivoluzioni Colorate ripropose, quindi, questa dicotomia, sebbene con alcune novità. Effettivamente, le circostanze e le modalità con cui i movimenti rivoluzionari si erano consumati richiedevano un’importante riparametrazione degli strumenti interpretativi2.
Sia la spiegazione basata unicamente su base volontaristica-elettoralistica, sia la spiegazione su base strutturalista, prese singolarmente, non riescono a dar conto fino in fondo della complessità degli eventi verificatisi all’inizio del XXI secolo nell’area post-sovietica. Solo un approccio di tipo strategico, così come è stato pensato a suo tempo da Lucan Way, riesce a conciliare e a sposare attore e struttura entro un unico e convincente quadro interpretativo. Ecco allora che non è il quadro storico o culturale di lungo periodo la chiave per decodificare i tentativi rivoluzionari avvenuti nell’area post-sovietica, ma un approccio che considera gli elementi strutturali nella loro contingenza, fotografando le condizioni nel momento stesso in cui il fenomeno si presenta.

Concretamente, non è stato il tipo o l’entità del supporto offerto dall’Occidente ai movimenti di protesta, né l’ampiezza della protesta a determinare la fine o meno del potere autoritario, ma se e quanto quel potere autoritario fosse collegato con l’Occidente e, contestualmente, se e quanti strumenti quel potere autoritario o semi-autoritario poteva mettere in campo per arginare i movimenti di protesta. Chiaramente, senza un’attivazione delle opposizioni, i rovesciamenti non si sarebbero mai consumati, ma dovevano comunque esservi delle condizioni strutturali favorevoli. L’indebolimento dei regimi autoritari, infatti, non derivava infatti dalle pressioni provenienti dalla società civile e dai partiti di opposizione (presenti in tutti i casi), ma dalla disponibilità di risorse e di alleanze strategiche internazionali utili allo scopo. La disponibilità di risorse ha permesso agli autocrati di mantenere più coesa l’élite politica e di cooptare le élite economiche attraverso corruttele e rapporti clientelari. Questa ha permesso di limitare i rischi e costi derivanti da atti di repressione orizzontale e allo stesso tempo ha liberato importanti risorse per rafforzare l’apparato repressivo verticale contro la società civile.

L’elemento internazionale è certamente uno dei fattori determinanti. Da una parte vi è la Russia, che ha saputo riaffermarsi come potenza principale dell’area attraverso un mix di strategie di soft e hard power, utili a sfruttare i punti deboli e le divisioni etniche dei Paesi vicini, andando anche a rischiare di rinfocolare i sentimenti anti-russi in ampi strati delle popolazioni interessate5. Dall’altra vi è l’Occidente, incapace di imporsi come testimonianza democratica credibile e privo di sufficiente forza e di interesse profondo per lanciarsi nella sfida. In particolare, gli Stati Uniti sono giudicati da fette importanti dell’opinione pubblica di questi Paesi come una potenza imperialistica, capace di ammantare di retorica democratica obiettivi e interessi strategici, magari dopo aver dato ossigeno, per diverso tempo, ai leader autoritari degli stessi Paesi6. Il problema, però, non risiede nella volontà di una superpotenza di tutelare i propri interessi strategici, ma nella motivazione a cui si ricorre per intervenire negli affari di un altro Paese. Il ricorso alla promozione democratica per scopi diversi dalla stessa non convince più nessuno.
Inoltre, non si può dimenticare che la competizione tra superpotenze è divenuto lo strumento che ha condizionato l’operato delle élites locali o che le élites locali hanno cercato di sfruttare a proprio e diretto vantaggio. Nelle attività di promozione democratica, non considerare questa dinamica può essere un errore letale.

*Insegno scienza politica e Sistemi politici comparati presso il dipartimento di comunicazione e ricerca sociale di Sapienza Università di Roma e sono presidente del Corso di laurea in Cooperazione internazionale e sviluppo

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