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Mare Climaticum Nostrum

Il Mediterraneo al centro dell’azione climatica. Intervista ad Antonio Navarra (Cmcc)

Durante la conferenza Mare Climaticum Nostrum, il climatologo del Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti climatici ha presentato a Oltremare un quadro completo e accurato di una regione particolarmente esposta. Riscaldamento dei mari, siccità, impatti sulla salute e sulla crescita economica i temi di questo colloquio

Dal 5 all’8 ottobre si è tenuto a Firenze, presso la Fortezza da Basso, Mare Climaticum Nostrum, la prima conferenza sugli impatti del cambiamento climatico nell’area del Mediterraneo. Una discussione autorevole basata sui più aggiornati studi e le ricerche più avanzate, tesa ad identificare e prevenire gli effetti prodotti in atmosfera, sulle acque, al suolo, in agricoltura, nelle aree urbane, sulle infrastrutture, sulla salute umana e negli ecosistemi ambientali. Oltremare ha intervistato Antonio Navarra, direttore del Centro Euro-Mediterraneo sui i Cambiamenti Climatici (Cmcc) di Lecce e main discussant dell’evento per identificare la gamma degli impatti previsti – desertificazione, siccità, dissesto idrogeologico e alluvioni, innalzamento dei livelli del mare e cuneo salino, disponibilità qualità e utilizzi dell’acqua in una regione che si è riscaldata e continuerà a riscaldarsi maggiormente della media globale.

Navarra, come possiamo collocare il Mediterraneo nella classifica delle aree più vulnerabili a causa del cambiamento climatico?

Il Mediterraneo è una delle aree più vulnerabili, tant’è vero che è stata classificata come hotspot dal’Ipcc, il panel intergovernativo sui cambiamenti climatici. È il motivo per cui è più vulnerabile al cambiamento climatico e che si trova al confine tra le aree subtropicali e le medie latitudini. Dunque ogni piccola variazione di questi confini ha degli effetti sproporzionati sull’area.

Qual è in sintesi estrema l’effetto del climate change nel Mediterraneo?

L’effetto principale è quello di aumentare le temperature e diminuire le precipitazioni, con conseguenze che sono via via più importanti man mano che si va da nord verso sud. Questo è dovuto a tutta una serie di fattori. Principalmente riguardano la riorganizzazione della circolazione atmosferica generale del pianeta a causa dell’aumento dei gas serra, che scatenano una serie di eventi correlati che alterano le medie di fenomeni come piovosità o temperature. È chiaro che spostando la media, che già influisce su una naturale variabilità del clima, si spostano pure gli estremi di questa variabilità. Dunque, il risultato netto è un aumento di frequenza degli eventi più estremi nella distribuzione atmosferica. Quindi quello ha una probabilità di accadere una volta ogni di cent’anni, nel giro di qualche decade può accadere ogni cinque anni.

C’è poi il problema dell’aumento del livello del mare anche se le stime sono caratterizzate da un’altissima variabilità. Qui è veramente necessario fare delle analisi più precise, perché ci sono zone dove si può alzare di molto, zone dove può addirittura scendere.

In questo caso i fattori sono l’aumento di temperatura e lo scioglimenti dei ghiacciai e dele calotte. Solo la Groenlandia sta contribuendo all’aumento dei livelli di un millimetro ogni anno. Nel Mediterraneo l’innalzamento si distribuisce dappertutto. Il livello del mare però non è solo una funzione di quanta acqua ci mettiamo dentro, ma dipende anche dalla circolazione oceanica stessa. Questo fa sì che ci possono essere delle configurazioni piuttosto complesse, che possono amplificare il valore medio in certe situazioni e deprimere in altre.

Serve quindi avere informazioni sempre più dettagliate?

Serve poter generare delle informazioni che siano poi utilizzabili dalla politica per mitigare il rischio. È necessario ottenere informazioni più localizzate, attraverso l’uso di modelli numerici locali ad alta risoluzione, ad alta accuratezza spaziale.

In particolar modo sulla gestione idrica, visto le riduzioni di piovosità

È chiaro che con le temperature in crescita e la riduzione della piovosità la risorsa idrica è sotto pressione in tutto il bacino e quindi i settori che usufruiscono di più della risorsa sono quelli più impattanti: come l’agricoltura, ma anche il turismo, un’attività ad alta domanda idrica.

Nei paesi di entrambe le sponde del Mediterraneo servono misure urgenti.

Bisogna pensare di adattarsi cambiando colture, adottando piante più idonee al clima, come l’introduzione degli avocado. Il vero problema qui è l’accettabilità sociale di queste misure. Non è facile cambiare tradizioni e forme mentali che sono stabilite in un lungo periodo. Anche se poi davanti all’evidenza gli agricoltori saranno costretti a cambiare il modo di coltivare e quello che coltivano.

Il potenziale di adattamento è importante per mitigare il rischio?

Assolutamente. È chiaro che lo stesso aumento di temperatura in una regione con le risorse umane, finanziarie e tecnologiche per intervenire sull’adattamento crea un rischio climatico inferiore. Invece, in una regione dove tali risorse sono scarse il rischio è maggiore.

Il Cmcc ha sviluppato degli indici del rischio che considerano sia i driver climatici sia la capacità adattativa, ovvero la capacità che una comunità o di un settore di reagire e mettere in campo misure per limitare gli effetti più nocivi. Non solo: è chiaro che in situazioni sociali complesse e delicate il cambiamento climatico rischia di essere un fattore moltiplicativo delle tensioni e dei problemi.

Le tempeste nel Mediterraneo, ribattezzate in inglese medicane, che tipo di occorrenza e di impatto avranno nei prossimi anni?

Si tratta di eventi per ora piuttosto rari. Come cambierà la frequenza a causa del cambiamento climatico? Non lo sappiamo perché si tratta di fenomeni con una scala molto piccola, non sono veri cicloni tropicali che sono molto più grandi. Rientrano in una classe di modelli che ancora non abbiamo. I medicane sono fenomeni sinottici, cioè entrano nel raggio di azione delle previsioni meteorologiche che normalmente si fanno, quindi sono perfettamente prevedibili. Serve un sistema efficace di allerta e monitoraggio in tutta la regione.

Come può la cooperazione scegliere quali azioni di adattamento sostenere nei paesi più vulnerabili?

C’è una vastissima letteratura su questi problemi e tanto lavoro di analisi, anche localizzato. Il problema è trovare la combinazione politica. Se parliamo di cooperazione bisogna mettere assieme i Paesi donatori con i Paesi che ricevono e realizzare interventi efficaci, che siano effettivamente implementati. Progetti di lungo termine, altrimenti c’è il rischio che, finito il progetto, finisca tutto lì e le cose ritornino come prima. Io sto nel board dell’Adaptation Fund delle Nazioni Unite che finanzia progetti medio-piccoli, quindi con un budget di una decina di milioni dollari, erogando direttamente alle agenzie dei Paesi che implementano i progetti. L’elemento importante è il processo di monitoraggio internazionale dell’esecuzione e il follow up con cui si accerta che questi progetti entrino nel tessuto del Paese stesso. La verifica ex-post è fondamentale. Bisogna poi resistere alla tentazione di fare progetti esageratamente sbilanciati rispetto alla capacità gestionale e di assorbimento. Dobbiamo evitare di costruire cattedrali nel deserto, letteralmente.

Quale è il settore da attenzionare per l’adattamento nei Paesi della costa meridionale del Mediterraneo, come Libia, Algeria, Egitto?

L’acqua è il problema numero uno. Questo perché in situazioni dove già la risorsa idrica è critica, un eventuale piccolo spostamento della risorsa può avere effetti completamente sproporzionati rispetto all’effettivo riduzione. L’altro rischio che bisogna evitare è trovare soluzioni che poi rischiano di avere degli effetti negativi sul pianeta in generale. Se l’acqua manca non possiamo risolverlo con impianti di desalinizzazione bruciando combustibili fossili. Serve una visione sistemica intelligente e innovativa.

Biografia
Emanuele Bompan
Giornalista ambientale e geografo. Si occupa di economia circolare, cambiamenti climatici, green-economy, politica americana. E’ Direttore della rivista Materia Rinnovabile, collabora con testate come La Stampa, Nuova Ecologia e Oltremare. Ha scritto l’Atlante geopolitico dell’Acqua (2019),Water Grabbing – le guerre nascoste per l’acqua nel XXI secolo (2018) “Che cosa è l’economia circolare” (2017). Ha vinto per quattro volte l’European Journalism Center IDR Grant, una volta la Middlebury Environmental Journalism Fellowship, una volta la Google DNI Initiative ed è stato nominato Giornalista per la Terra nel 2015.
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