Storie di emergenza • Kosay, Libano

Non c’è molto in Kosay che ricordi un bambino di 13 anni. I movimenti sicuri con cui si prepara il pranzo, le mani indurite dalla carta vetrata, i discorsi da adulto, gli danno un’aria più matura. Mentre leviga la carrozzeria di una macchina in un’officina di Mazbood, in Libano, si dice contento di avere in […]

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Non c’è molto in Kosay che ricordi un bambino di 13 anni. I movimenti sicuri con cui si prepara il pranzo, le mani indurite dalla carta vetrata, i discorsi da adulto, gli danno un’aria più matura. Mentre leviga la carrozzeria di una macchina in un’officina di Mazbood, in Libano, si dice contento di avere in tasca una professione.

Sono 403.100 i bambini siriani in età scolare presenti in Libano. Circa 300.000 di loro non ricevono alcuna educazione. Come Kosay, alcuni si alzano ogni mattina per andare a lavoro, vittime di una guerra – quella siriana – che sta rubando loro gli anni più spensierati.

“Un bambino dovrebbe avere una buona condizione di vita, una casa, dovrebbe andare a scuola e avere degli amici. Ha diritto a tutto perché non è altro che un bambino,” dice Kosay. I suoi diritti, la sua infanzia, sono stati cancellati nella primavera del 2011, quando le violente proteste in Siria si sono trasformate in rivoluzione e poi in una sanguinosa guerra civile.

Oltre al viso, rotondo con una fossetta a lato, non rimane che un sogno a ridare a Kosay le sembianze di un bambino. Ogni pomeriggio, al centro comunitario gestito dalla ONG italiana INTERSOS, si allena con i suoi amici a ballare la breakdance. “Molti mi dicono di lasciar perdere, che non è una cosa utile,” dice Kosay, “ma è il mio sogno, e devo realizzarlo.”

Sono 15 i centri aperti da INTERSOS in Libano per sopperire all’assenza di una struttura educativa e ridare ai bambini un luogo in cui poter essere tali. Le attività, pensate per aiutarli a giocare e ad esprimersi, sono un mezzo per superare i traumi e i ricordi della guerra. Il legame di fiducia che si instaura tra i ragazzi e gli educatori, le sessioni di supporto psico-sociale e il numero verde istituito per facilitare le segnalazioni permettono di svolgere attività di protezione e prevenire episodi di abusi o violenze.

La zona del Monte Libano, dove è situato il villaggio di Mazbood, ospita attualmente circa il 27% della popolazione siriana rifugiata, che in Libano ha da tempo superato il milione. Di questi, circa la metà sono minorenni. L’UNHCR, l’agenzia delle Nazioni Unite dedicata ai rifugiati, ha sostenuto le attività di INTERSOS, aiutando circa 25,000 bambini, sia siriani che appartenenti alle fasce più povere della comunità libanese. Dal 2013, la Cooperazione Italiana ha sostenuto le attività di UNHCR con oltre 7 milioni di euro.

Sebbene la soluzione più desiderabile sia l’accesso all’educazione formale, centri comunitari come quello di Mazbood sopperiscono alle mancanze di un sistema scolastico al collasso e offrono un’oasi sicura a una generazione che ha già troppo sofferto. Forse Kosay non sarà mai un ballerino, crescerà facendo il carrozziere, ma potrà dire, almeno, di aver sognato.

In collaborazione con la Municipalità di Ghazze, sono state selezionate delle attività che contribuissero al miglioramento delle infrastrutture pubbliche, al duplice scopo di ridare dignità ai beneficiari attraverso il lavoro e di alleggerire le tensioni con la comunità ospitante.

Sebbene il progetto miri a garantire il coinvolgimento di alcuni settori specifici della società, tra cui le donne e la popolazione locale libanese, la selezione è affidata ad appositi criteri di vulnerabilità, attraverso i quali si arriva ad avere 8 gruppi di beneficiari da 50 persone ciascuno che lavorano 24 giorni nell’arco di un mese e mezzo.

Per stimolare la partecipazione di donne sole come Gharam, alle quali il progetto si rivolge in particolar modo, si è scelto per loro un luogo di lavoro protetto quale il parco pubblico di Ghazze. Il primo gruppo per la gestione dei rifiuti ha iniziato a lavorare ad aprile pulendo il giardino e la strada d’ingresso, in risposta al bisogno di riabilitare gli spazi verdi all’interno della città. Un secondo gruppo si è occupato della riabilitazione delle opere, contribuendo alla pulizia dei canali di scolo della strada principale e apportando migliorie al parco pubblico.

Il progetto prevede il coinvolgimento di 410 partecipanti, ciascuno dei quali guadagna un totale di 445 euro a turno, una cifra che per molti fa la differenza. Con questi soldi Gharam ha riacquistato la salute, potendo finalmente permettersi le spese mediche per tre interventi dei quali aveva bisogno.

Oltre all’aspetto economico, il progetto ha permesso la riduzione del 30% dei rifiuti a terra e nei corsi d’acqua di Ghazze. Le diverse attività educative organizzate parallelamente hanno favorito la sensibilizzazione della popolazione, sia rifugiata che locale, su temi quali ambiente, riciclaggio, consumo di risorse idriche e igiene. La conoscenza limitata delle conseguenze igienico-sanitarie di una cattiva gestione dei rifiuti, unita all’incremento della popolazione, sono infatti fattori di tensione che è necessario arginare.

“Voglio lavorare, non voglio essere dipendente dagli aiuti” dice Gharam. I 13 dollari al mese che ciascun rifugiato riceve dal Programma Alimentare Mondiale non sono sufficienti neanche a coprire le spese più necessarie. Anche se gli aiuti bastassero, molti li vivono come carità. La dignità di un lavoro è forse il bene che più manca ad un popolo la cui vita, ormai, è ferma da quattro anni.

Ultimo aggiornamento: 28/02/2024, 10:59