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La “Città nuova” per contrastare la “Foresta moderna”, un luogo inclusivo contro la proliferazione di ghetti etno-sociali.

La sfida dell’inclusione necessità di un ripensamento sulla città, sul rapporto centro-periferia. L’urbanistica può aiutare o smantellare la coesione sociale. La “città nuova” è pensiero, politica, intesa nel senso più alto e nobile di “polis”. “Città nuova” fa i conti con la dimensione quantitativa dell’urbanizzazione, soprattutto nei Paesi dei Sud del mondo.


La meta del cammino umano non è ne’ un giardino ne’ la campagna, per quanto fertile ed attraente, ma la città.
E’ la città descritta nell’Apocalisse, con dodici porte, lunga e larga dodicimila stadi; una città dunque in cui sono chiamati ad abitare tutti i popoli della terra. Di giorno le porte non saranno mai chiuse e non ci sarà più notte (Ap 21,25). Non occorre necessariamente avere davanti agli occhi una città ideale, ma almeno un ideale di città (…)”

Carlo Maria Martini

Leggere la città e la complessità dei suoi territori, risorse, identità, specificità, significa dotarsi di un filtro di lettura che – come un pretesto narrativo – consenta di raccontarne le storie, identificare alcuni scenari di riferimento, individuare parole-chiave per evocarne strutture, risorse, identità e prospettiva di trasformazione.

In particolare la configurazione spaziale della città, la sua distribuzione geografica si permea di significati storici, culturali, sociali, economici ed urbanistici che evidenziano, a seconda dei filtri di lettura che si utilizzano, prospettive di valorizzazione e sviluppo che non necessariamente rispondono a tradizionali modelli di funzione urbana definibili in senso gerarchico: il centro – come luogo di rappresentazione dell’identità urbana, economica, sociale e culturale – e la periferia – intesa come luogo in cui è collocato ciò che non può stare al centro.

D’altro canto, se la contemporaneità è meticciato, sociale prima ancora che etnico o culturale, le periferie urbane, oggi, sono spesso i luoghi in cui prende forma, in modo contraddittorio, un nuovo significato di città ed in cui si esplicitano e precipitano, su scala locale, le contraddizioni ed i conflitti globali. I nuovi cittadini, immigrati di prima e seconda generazione, spesso rappresentano lo specchio nel quale la città storica si riflette e non si riconosce: l’uso degli spazi pubblici – le piazze, i giardini, i marciapiedi – ritornano ad essere i luoghi primari di relazioni sociali e di interazione collettiva, seppur disordinati, rumorosi e conflittuali, ridando funzione pubblica a spazi che la città contemporanea ha sempre più privatizzato, regolato, normato.

Ragionare adottando nuovi paradigmi, e provando a ridisegnare la dicotomia centro-periferie, significa riconoscere valore culturale e sociale agli ibridi urbani che nelle periferie si intrecciano e si incontrano. La città pluricentrica non è soltanto una città capace di distribuire nuove funzioni di scala urbana a tutti i suoi territori: le multisale cinematografiche, i centri di loisir in periferia, il teatro d’opera e i musei in centro. La “nuova città” come sfida epocale per coniugare, a livello planetario, sicurezza e inclusione, Annota Sir Crispin Tickell nella sua introduzione al libro “Città per un piccolo pianeta di Richard Rogers: “Le città si comportano come organismi. Inghiottono risorse ed espellono rifiuti. Quanto più grande è la città, tanto più esse dipendono dalle aree circostanti e tanto più accresce le loro vulnerabilità ai cambiamenti intorno…”. E’ così.

La sfida dell’inclusione necessità di un ripensamento sulla città, sul rapporto centro-periferia. L’urbanistica può aiutare o smantellare la coesione sociale. La “ città nuova” è pensiero, politica, intesa nel senso più alto e nobile di “polis”. “Città nuova” fa i conti con la dimensione quantitativa dell’urbanizzazione, soprattutto nei Paesi dei Sud del mondo, Asia, Africa, dove lo spopolamento delle zone rurali ha determinato un maggiore affollamento nelle città-megalopoli, il che significa anche maggiore pressione sull’ambiente. E significa anche un maggior numero di rifugiati. Nel 1978 ve ne erano 6 milioni, nel senso stretto di “rifugiati”, in fuga cioè da persecuzioni politiche, etniche o religiose; nel 1995 il loro numero era aumentato a oltre 22 milioni, non includendo i rifugiati per cause ambientali, alcuni migrando da paese a paese, altri dentro le loro stesse frontiere, con un aumento complessivo di altri 22 milioni.

Nel 2016, il numero dei rifugiati ha superato la cifra record di 64 milioni. . “L’effetto di questo flusso di esseri umani sarà sentito soprattutto nelle città e nei loro dintorni”. annota Tickell. La città “nuova” è il tentativo, in alcuni casi riuscito, di coniugare idealità e concretezza. Tickel conclude così la sua introduzione: “Il libro di Richard Rogers è un messaggio di speranza. Egli mostra come la città equa ed equilibrata, e soprattutto compatta, debba essere pluralista e integrata, varia e coesiva. Il risultato dovrebbe essere, nelle parole di Richard Rogers, una città ad alta densità e policentrica, una città ecologica, una città che favorisca i contatti umani, una città di attività diverse e miste, giusta, aperta e, non ultimo, una città capace di bellezza, in cui l’arte, l’architettura e il paesaggio possano stimolare e soddisfare lo spirito. Richard Rogers ci mostra come può essere fatto”.

Nella dicotomia centro-periferia, annota Ilda Curti, tra i più valenti “rigenetori urbani italiani, i centri storici rischiano di assumere sempre più il volto artificiale di ‘parchi di divertimento”’ da cui sono escluse o sterilizzate le funzioni per le quali sono nati e si sono sviluppati, e offrono identità reinterpretate e talvolta banalizzate, schiacciandosi intorno ad un’identità storica cristallizzata, immutabile e reiterata nel tempo.

In questa prospettiva le periferie urbane e i quartieri non centrali rischiano, al contrario, di diventare luoghi di servizio, affastellati di funzioni che non hanno spazio nella città ‘valorizzata’ luoghi in cui gli sfridi disordinati della città contemporanea trovano spazio fisico, comodità d’uso, facilità di fruizione, pianificazione urbanistica ma spesso non riescono a produrre progetti di territorio, visioni di sviluppo endogeno capaci di dare valore – ancorché intangibile e immateriale – ad una collettività spazialmente circoscritta”. Spesso, annota sempre Curti, “ le periferie urbane sono, più di altri, luoghi dove si produce e si consuma contemporaneità: il mix sociale dei residenti, la multiculturalità e la coabitazione, la difficoltà di condividere spazi pubblici e relazioni private le rendono laboratori dove si sperimenta nuova cittadinanza, dove si rimettono continuamente in discussione regole di convivenza e di relazione.

E’ nelle periferie, nei quartieri ai margini delle città storiche che la contemporaneità si produce in forme plurali e multiformi, spesso dissonanti rispetto ad un’idea di modernità cristallina e patinata. Sono, spesso, laboratori di innovazione sociale perché è negli interstizi del loro disordine e dei loro conflitti che si contaminano linguaggi, forme culturali, modalità espressive…”. Il futuro stesso del pianeta passa attraverso un ripensamento profondo della “Città”. Altri racconteranno esperienze pilota (come quella della rigenerazione delle favelas brasiliane, esperienze che hanno visto la Cooperazione italiana parte attiva e propositiva.

Qui vale rimarcare la fascinazione di questa sfida, Città versus Foresta urbana. E non trovo parole più evocative, profonde di quelle usate dal cardinale Carlo Maria Martini nel suo “Verso Gerusalemme” (Feltrinelli): “La meta del cammino umano non è né il giardino né la campagna, per quanto fertile ed attraente, ma la città… E’ la città descritta nell’Apocalisse, con dodici porte, lunga e larga dodicimila stadi; una città dunque in cui sono chiamati ad abitare tutti i popoli della terra. Di giorno le porte non saranno mai chiuse e non ci sarà più notte (Ap 21,25)”. Guardava al futuro, con lo straordinario rigore intellettuale che lo ha accompagnato per tutta la sua vita, il cardinal Martini, ricordando a tutti noi che “Non occorre necessariamente avere davanti agli occhi una città ideale ma almeno un ideale di città”.
abitudini e identità…”. La definizione dei caratteri di una “Città nuova” è la più grande sfida intellettuale dei nostri tempi. Perché costringe a progettare oltre l’emergenza, a intrecciare saperi diversi. “La città è un discorso, e questo discorso è un vero e proprio linguaggi: la città parla ai suoi abitanti, noi parliamo alla nostra città, la città in cui ci troviamo, semplicemente abitandola, percorrendola, osservandola”, riflette Roland Barthes, nel suo “Semiologia e urbanistica”. E a volte, l’urbanistica spiega molto di più dei perché di un conflitto, di quanto sia in grado di fare la geopolitica o la diplomazia. Questo discorso vale per una delle città che più ho frequentato per lavoro in medio Oriente: Gerusalemme. Città santa, Città contesa, nel cui nome sono state commesse atrocità e “miracoli”. Per comprendere la Gerusalemme reale, scrive Paola Caridi nel suo bel libro “Gerusalemme senza Dio. Ritratto di una città crudele” (Feltrinelli), “non servono le normali e infinite guide turistiche, dettagliatissime nel definire ogni singola pietra con un seppur flebile legame religioso. Occorrono cartine, planimetrie e piani regolatori…”. Perché Gerusalemme è un “corpo separato”. “Linee, confini, muri, un di qua e un di là. Da me, e dall’altra parte, dove sono gli ‘altri’ – annota Caridi, che a Gerusalemme ha vissuto e che Gerusalemme ha conosciuto come pochi altri -….Decidere un piano regolatore a Gerusalemme, vuol dire – dunque – entrare con tutt’e due le scarpe dentro il processo di pace. La soluzione a due stati indicata dal processo di Oslo, e cioè Israele e Palestina uno accanto all’altra con Gerusalemme come capitale lungo la linea di divisione del 1967, non è attuabile. Per la strategia urbanistica, e perché – di conseguenza la città ha ora una bilancia demografica diversa, molto diversa, dal 1967. Altri racconteranno esperienze particolari, di rigenerazione virtuosa di luoghi del degrado trasformati in pezzi di “Città nuova” (esemplare l’esperienza delle favelas o quella di Medellin). Qui vale dar conto della fascinazione di un impegno, del quale la Cooperazione italiana è parte attiva e propositiva, dal quale dipende il futuro stesso del pianeta.

 

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