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Green new order, ecco la diplomazia climatica

La centralità assunta dal tema dei cambiamenti climatici e della tutela dell’ambiente nel dibattito globale e europeo rappresenta un elemento sempre più qualificante della politica estera italiana. Per capire come va declinata la questione della diplomazia climatica Oltremare ne ha discusso con Luca Bergamaschi, del think tank Ecco che da molti anni segue negoziati Cop, G20, G7 e offre spunti di analisi originali e interessanti

Luca Bergamaschi, cos’è oggi la diplomazia climatica?

La diplomazia climatica include tutta la diplomazia. Nel senso che il clima non è solo imporre target di riduzione delle emissioni. Si tratta di trasformare i sistemi economici finanziari e quindi le implicazioni politiche e geopolitiche di ciò. Tutta la diplomazia dovrebbe avere una valutazione della propria azione rispetto agli obiettivi climatici.

Storicamente la diplomazia climatica si è concentrata sui negoziati Unfccc (la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, Ndr) e quindi nella costruzione di un regime internazionale che governasse l’azione dei singoli Stati, e dopo l’accordo di Parigi su un’architettura di regole d’implementazione.

Oggi penso che la diplomazia climatica debba innanzitutto capire quali sono gli interessi di altri Paesi rispetto a la costruzione di un’economia verde. Qual è la scommessa che stanno facendo gli Stati Uniti di Biden con l’Inflation Reduction Act? Qual è l’investimento che la Cina ha fatto negli ultimi dieci anni sulle rinnovabili, e come di determinano le dinamiche globali di un’economia che abbandona le fonti fossili? L’Italia, secondo Paese manifatturiero d’Europa, se non si confronta sul piano internazionale, se non raccoglie intelligence, non è in grado di giocare questa partita.

Il secondo aspetto è capire come influenzare le scelte degli altri paesi e come posizionarsi rispetto a loro. Ovvero la proiezione esterna del paese rispetto ai propri interessi e alle posizioni altrui.

Dunque un importante ruolo di dialogo e raccolta di intelligence

La diplomazia climatica deve informare il dibattito nazionale su dove stanno andando le altre economie. In Italia, oggi, si considerano poco le decisioni che vengono prese dalle grandi potenze industriali e nei consessi internazionali. Ci concentriamo su tecnologie minori, ignorando le mega-tendenze in corso.

C’è anche un tema di sicurezza nazionale

La sicurezza nazionale, italiana o europea dipende oggi dalla velocità con cui altri Paesi, soprattutto quelli che oggi sono grandi emettitori – Cina e India tra tutti – sono in grado di portare avanti la decarbonizzazione. La diplomazia deve avere la capacità di influenzare la velocità con cui gli altri agiscono, poiché i danni del cambiamento climatico ci toccano direttamente. Dobbiamo mettere in condizione i vari Paesi di operare entro l’accordo di Parigi , e sostenere quelle forme di cooperazione che accelerano questa transizione globale.

Per sostenere la decarbonizzazione laddove rallenta, anche in maniera grave, serve una diplomazia del bastone o della carota?

Partiamo dalla carota, che forse è più semplice e anche più efficace. Oggi la finanza climatica è lo strumento principe per mettere tutti i paesi nelle condizioni di armonizzare le strategie di mitigazione e di implementare piani di adattamento e resilienza agli impatti climatici. In questo senso, il Fondo italiano per il clima, con una dotazione di 840 milioni di euro l’anno, è un importante strumento di diplomazia climatica e di cooperazione. Serve però strategia e visione politica per scegliere su quali paesi e su quali tecnologie indirizzare il sostegno finanziario. Crediamo che il Mediterraneo sia oggi centrale e può rappresentare la regione dove concentrare l’azione diplomatica del nostro Paese. Ad esempio, si potrebbe pensare come investire maggiormente nell’elettrificazione del Nord Africa, come aumentare la resilienza dei sistemi agricoli e quindi della catena del cibo e dell’acqua.

La finanza bilaterale con i Paesi prescelti si avvale di Cassa Depositi e Prestiti e Sace come istituti di promozione del credito e delle esportazioni italiane, per fare leva su investimenti privati, che avranno un ruolo sempre più cruciale. Un altro elemento sono le regole internazionali della finanza, quindi il funzionamento delle banche multilaterali di sviluppo. Paesi come l’Italia hanno un grande potere. Essere un grande contributore del capitale di queste banche offre posizioni di influenza. Offre inoltre un grosso peso decisionale sulle regole del debito, con agevolazioni sulla restituzione dei prestiti per chi investe in mitigazione e adattamento.

Per quanto riguarda il bastone, dobbiamo essere cauti e farne un uso più oculato. Più utilizziamo il bastone, più l’economia tende a chiudersi, creando frammentazione e sfiducia globale. Certo, si possono pensare a condizionalità nei prestiti o ad interventi di tariffe sul commercio, come il Carbon Border Adjustment Mechanism (Cbam), proteggendo la produzione industriale low carbon. Ma queste azioni devono affiancarsi ad interventi che aiutano i paesi in via di sviluppo a mettersi nelle condizioni di cooperare e competere. Le condizionalità vanno sempre messe in pacchetti di intervento ben studiati e pensati.

Sulla diplomazia climatica non c’è una posizione forte europea. Dovremmo cedere un pezzetto di sovranità anche su questo, per parlare con una voce unica?

I ministeri e i governi sono ancora molto legati alla propria diplomazia interna. Si fatica a delegare. La transizione apre a grandi interessi economici. L’Europa deve avere una politica economica industriale comune, altrimenti è impossibile che la diplomazia faccia un passo più grande della gamba – la politica economica. Quindi più allineiamo le politiche industriali, più avremo una diplomazia efficace e comune.

Per fare questo, la diplomazia europea avrebbe bisogno di un mandato molto più forte da parte dei ministri degli Esteri, dal Servizio europeo per l’azione esterna e dotarsi di un ambasciatore per il clima, al pari di John Kerry in Usa. Insomma, una figura forte della diplomazia climatica europea.

Ma se ci sono paesi che puntano tutto sulle rinnovabili, chi punta sul gas, chi sul nucleare, come si fa ad avere una posizione forte? Ribadiamo la lista delle priorità che dovrebbe vedere solare, eolico, rinnovo reti elettriche e batterie. In questo modo daremo un messaggio più chiaro anche agli altri paesi, come l’Africa, oltre che agli investitori internazionali. Speriamo che la nuova Commissione, dal 2024, prenda in considerazione questi elementi: coordinamento interno più forte e mandato diplomatico più marcato.

A breve sarà nominato il nuovo inviato speciale per il clima italiano. Che figura si dovrebbe nominare?

Una figura con competenza, esperienza, riconoscibilità. Solo i prossimi 12 mesi sono pieni di sfide. Bisogna dare una direzione al Fondo italiano per il clima. Questo può aiutare l’amministrazione a identificare i Paesi e le tecnologie e aprire un dialogo funzionale alla realizzazione dei progetti. C’è poi la Presidenza italiana del G7 del 2024, che culminerà con la riunione dei Capi di Stato e di Governo in Puglia (giugno 2024). In quella sede si dovrà lavorare su numerosi temi chiave, a partire dal Mediterraneo. A dicembre di quest’anno, a Dubai, alla Cop28 sarà necessario delineare la relazione con i Paesi del Golfo, per lavorare ad un piano di transizione per i produttori di oil&gas. Poi c’è il tema di presentare all’estero i piani di conversione del mondo della finanza e di grandi aziende come Eni. Serve dunque un grande dialogo di ascolto con i non-state actors, come imprese e società civile, amministrazioni locali.

Uno dei focus sarà l’Africa, con l’atteso summit Italia-Africa questo autunno.

Sicuramente uno delle priorità dell’inviato climatico sarà questo. Dovremo infatti capire cosa significa questo piano Mattei per l’Africa e delineare obiettivi, strumenti con cui l’ambasciatore si dovrà far promotore di questo piano.

C’è anche il dossier Cina, paese con cui l’Italia, dai temi di Corrado Clini su clima e ambiente ha sempre avuto una cooperazione positiva.

Sappiamo che l’Italia deve decidere se rilanciare la sua presenza nella Via della Seta. Se a livello diplomatico si sceglie di non rinnovare quali meccanismi vanno adottati? Come teniamo aperto un mercato per pannelli, batterie, eccetera? Il dossier sui materiali critici come lo affrontiamo? C’è una nuova economia e bisogna tenere da conto delle relazioni strategiche.

Non farà tutto l’Inviato speciale per il clima

C’è bisogno di personale dedicato in tutte le ambasciate italiane in giro per il mondo, che non sempre hanno personale dedicato a queste materie, in grado di analizzare informazioni sul tema e riportare a Roma, a preparare il terreno per gli impegni, avere competenze per sostenere uffici come l’Ice. Serve un grande investimento nel personale, che supporti poi nelle missioni non solo il ministero degli Esteri, ma anche quelli dell’Economia e dell’Ambiente, e che prepari il terreno per il “made in Italy verde”.

Biografia
Emanuele Bompan
Giornalista ambientale e geografo. Si occupa di economia circolare, cambiamenti climatici, green-economy, politica americana. E’ Direttore della rivista Materia Rinnovabile, collabora con testate come La Stampa, Nuova Ecologia e Oltremare. Ha scritto l’Atlante geopolitico dell’Acqua (2019),Water Grabbing – le guerre nascoste per l’acqua nel XXI secolo (2018) “Che cosa è l’economia circolare” (2017). Ha vinto per quattro volte l’European Journalism Center IDR Grant, una volta la Middlebury Environmental Journalism Fellowship, una volta la Google DNI Initiative ed è stato nominato Giornalista per la Terra nel 2015.
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