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Ibrahim Thiaw, l’uomo in Caftano che vuole fermare il deserto

Mauritano e cittadino del mondo, guida l’attuazione di un trattato Onu ratificato da 196 Paesi. Sta facendo le valigie per Delhi, dove negozierà impegni nuovi. Anche per il “suo” Sahel

Sorridente nel caftano azzurro, Ibrahim Thiaw cambia improvvisamente tono ed espressione. Aggrotta le ciglia, fa una piccola pausa, poi elenca numeri e superfici quasi fosse un geometra. “Ci siamo giocati un’area grande come due Cine” scandisce come guardando un punto all’orizzonte. Per questo signore alto e distinto, originario della Mauritania e cittadino del mondo, aree quadrate e paragoni intercontinentali sono pane quotidiano da quando ha assunto il ruolo di segretario esecutivo della Convenzione dell’Onu contro la desertificazione (Unccd). È incaricato di coordinare l’attuazione di un trattato sottoscritto a Parigi il 17 giugno 1994, 25 anni fa, da ben 196 Paesi.
Impresa colossale, come conferma ad Oltremare ad Ankara, in Turchia, dove ha animato le celebrazioni della “giornata mondiale” dedicata dalle Nazioni Unite alla lotta contro il degrado e l’impoverimento dei suoli. Impresa che proverà a rilanciare già a Settembre a Delhi, in negoziati serrati con tutte e 196 le delegazioni degli Stati firmatari (“Non sperate in interviste con lui in quei giorni, trovare uno spazio sarà pressoché impossibile” avvertono i suoi collaboratori).
È, infatti, nella capitale indiana che, dal 2 al 13 settembre, si terrà la quattordicesima Conferenza delle parti (Cop) della Convenzione. Dalle due settimane di lavori dovranno uscire impegni nuovi nella prospettiva di quella Land Degradation Neutrality (Ldn), lo stop al degrado dei terreni da raggiungere entro il 2030, divenuta il riferimento nella lotta contro la desertificazione. Obiettivi, tappe e trattative che Thiaw conosce forse come nessun altro.

 

Nato nel villaggio di Tékane 62 anni fa, ha ricoperto incarichi direttivi per la tutela dell’ambiente e delle foreste nelle istituzioni nazionali e multilaterali. Prima con il ministero per lo Sviluppo rurale del suo Paese, poi con l’Unione mondiale per la conservazione della natura (Uicn) e con il Programma dell’Onu per l’ambiente (Unep), organismo del quale è stato vice-direttore. Infine, prima della nomina per la Convenzione all’inizio di quest’anno, è stato consigliere speciale del segretario generale delle Nazioni Unite per il Sahel. Non è un dettaglio. La nuova frontiera del mondo ha a che fare con le Cine ma taglia l’Africa.
Il segretario lo racconta, tirando fuori un pezzo della sua vita: “Mio padre fu portato via di notte: a Niakwar, lungo il fiume Senegal, nel tratto della Mauritania che segna il confine, i militari arrivarono a bordo dei pick-up”. Ricordi personali aiutano a capire come e perché, già a Delhi, sia urgente ripartire. “Era il 1989” riprende Thiaw: “Dopo gli scontri tra le comunità fulani e wolof, innescati dalla siccità, il regime mauritano decise di deportare in Mali e in Senegal 60mila persone, sostenendo che per loro non ci fosse più posto”. Suo padre era tra quelle: morì in un campo profughi. E ancora oggi nei tribunali mauritani continuano ad arrivare, da parte di chi spera di tornare, richieste di risarcimento e petizioni per l’assegnazione di terreni lungo il fiume.

 

 

Una storia come tante nel Sahel, sottolinea il signore in caftano: “Crescita demografica, riduzione delle piogge e competizione per terre, pascoli e fonti d’acqua stanno moltiplicando i fronti di conflitto dalla Nigeria al Mali e fino al Burkina Faso”. Allevatori contro contadini, pastori contro agricoltori, in competizione tra loro per sopravvivere. “I conflitti per la terra uccidono più di Boko Haram” dice il segretario introducendo il tema dei gruppi armati, di matrice islamista o meno, e chiarendo che il fattore etnico-religioso ha un rilievo solo marginale. “Fanno adepti perché tanti giovani non hanno speranza e allora, per cento o 200 dollari, una somma enorme per loro, possono essere disposti a uccidere”.
Non tutto, però, sarebbe perduto. Basta pensare alle opportunità di una nuova agricoltura fondata sullo sfruttamento dell’energia solare e l’irrigazione dei campi tramite il pompaggio dalle falde sotterranee. “Serve un mix di soluzioni a basso e ad alto contenuto tecnologico, che tengano dentro eolico, ‘mobile banking’ e intelligenza artificiale” sottolinea Thiaw. Sul piano finanziario la sua ricetta giusta sarebbe il “blending”, gli investimenti pubblico-privati, presentati come nuova frontiera della cooperazione internazionale.
Il riferimento che torna è poi la Grande muraglia verde, l’iniziativa rilanciata nel 2007 dall’Unione Africana per ripristinare la fertilità dei suoli nel Sahara e nel Sahel. “Vogliamo creare una barriera lunga 8mila chilometri, dall’Oceano Atlantico al Mar Rosso” dice Thiaw. L’obiettivo sarebbe riabilitare oltre cento milioni di ettari entro il 2030, creando una fascia di protezione estesa per 15 chilometri. Previsti interventi anche nell’area del Lago Ciad, un bacino che dava sostentamento a 30 milioni di persone ma che a causa di cambiamenti climatici e siccità ricorrenti si è ridotto ad un decimo della superficie originaria. Per la Grande muraglia verde, ad oggi, anche da finanziatori come Banca mondiale e Francia, sono stati messi a disposizione circa otto miliardi di dollari. Ne serviranno altri, per questo ed altri progetti sotto il segno del sole e del vento.

 

 

Thiaw menziona Desert to Power, una iniziativa della Banca africana di sviluppo che promette elettricità a 250 milioni di persone. Un appunto, infine, che sa di paradosso e di speranza: “Oggi in Africa si perde il 40 per cento delle produzioni alimentari, dal latte alla frutta, perché senza energia conservare è impossibile”.

 

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