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Cattiva la salute dell’ambiente, pessima quella dell’uomo

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Deforestazione, cambiamenti climatici, erosione della biodiversità influiscono sulla salute dell’uomo. Dal coronavirus, derivato dal degrado ambientale e il traffico di animali alle ondate di calore, serve agire per ridurre i rischi

 

Secondo la European Public Health Alliance l’inquinamento atmosferico si sta rivelando un fattore di incremento di rischio sugli effetti del corona-virus. Più le città sono inquinate più si possono aggravare le persone infette. «I pazienti con patologie polmonari e cardiache croniche causate o peggiorate dall’esposizione a lungo termine all’inquinamento atmosferico sono meno in grado di combattere le infezioni polmonari e hanno maggiori probabilità di morire. Questo è probabilmente anche il caso di Covid-19. Riducendo i livelli di inquinamento atmosferico possiamo aiutare i più vulnerabili nella loro lotta contro questa e tutte le possibili pandemie future», spiega la dott.ssa Sara De Matteis, professoressa associata di Medicina del lavoro e ambientale presso l’Università di Cagliari. Ma questo è solo uno dei tanti impatti del degrado ambientale sulla nostra salute, con una correlazione maggiore nei paesi meno sviluppati. Quando si distruggono gli habitat naturali e le specie animali, o non si agisce a sufficienza contro le emissioni, l’inquinamento atmosferico e delle acqua, in realtà si sta danneggiando l’uomo, la sua salute, vanificando gli sforzi per raggiungere gli Obiettivi di sviluppo sostenibile.

Rimanendo sempre in tema pandemia, va assolutamente considerata la forte correlazione tra deforestazione e degrado ambientale con l’esplosione di nuovi virus passati dagli animali all’uomo. Covid-19, Ebola, Sars, Zika, MERS, H1N1 sono tutte EID (emerging infectious diseases) di origine zoonotica: sono state trasmesse cioè dagli animali, soprattutto selvatici. Il 75% delle malattie umane fino ad oggi conosciute, infatti, deriva da animali, così come il 60% delle malattie emergenti viene trasmesso da animali selvatici, tramite il cosiddetto effetto dello spillover. «Ci sono 20 anni di ricerche approfondite su questi passaggi tra animali e uomini», spiega a Oltremare Moreno di Marco, ricercatore del dipartimento di Biologia e Biotecnologie dell’Università La Sapienza. « Oggi si conoscono i determinanti delle EID zoonoiche. Il fattore di rischio principale è quello collegato al degrado ambientale e la perdita di biodiversità in aree tropicali. L’interazione non corretta con gli animali, traffico illegale di spercie protette che portano patogeni, la deforestazione per aumentare copertura agropastorale, sono i fenomeni concreti che hanno portato alla crescita esponenziale di fenomeni di spillover».

La frequenza è il fattore allarmante. Se prima malattie di questo tipo emergevano ogni 40 anni, oggi ogni 5 anni ci si trova a doverne affrontare una. «Per queste ragioni serve concludere i negoziati ONU sulla biodiversità», spiega Isabella Pratesi del WWF Italia. «I governi devono attuare un’unica strategia sulla tutela di queste aree, ricostruendo le connessioni tra ecosistemi che ci proteggono da malattie.

Per queste ragioni oggi quando si devono affrontare queste situazioni la cooperazione e le IGO hanno adottato la strategia ONU One Health, che si concentra sulla biosicurezza agricola, la salute e tutela dell’ambiente e il controllo di malattie su animali e persone. La strategia One Health ha già attirato l’interesse di numerosi paesi in quanto può fornire una piattaforma globale per l’integrazione della mitigazione del rischio EID nell’ambito dello sviluppo sostenibile. Però anche questo approccio è limitato e non include altre problematiche non direttamente correlate, come clima e perdita di biodiversità.

Perdita di biodiversità, e la salute se ne va

Tanti gli aspetti del benessere umano dipendono dai servizi degli ecosistemi naturali, la cui salute dipende dalla biodiversità. «La perdita di biodiversità può destabilizzare gli ecosistemi, promuovere focolai di malattie infettive e compromettere lo sviluppo, l’alimentazione, la sicurezza e la protezione da calamità naturali», afferma la dott.ssa Maria Neira, direttore dell’OMS, dipartimento sanità pubblica – determinanti ambientali e sociali della salute. «La protezione della salute pubblica da questi rischi non rientra nei ruoli tradizionali del settore sanitario. Serve che altre istituzioni e organizzazioni non governative collaborino con noi».

In Africa ed Asia ad esempio la crescente estinzione di specie animali sta privando i ricercatori di importanti casi studio. Gli studi di anatomia, fisiologia e biochimica della fauna selvatica possono portare a importanti sviluppi nella medicina umana. Esempi di specie di interesse per la scienza medica includono orsi (per approfondimenti su osteoporosi, disturbi cardiovascolari, malattie renali e diabete), squali (osmoregolazione e immunologia), cetacei (respirazione) e  granchi ferro di cavallo (optometria / oftalmologia e biologia cellulare molecolare).

“Sempre più farmaci sono derivati da specie selvatiche, inclusi alcuni antidolorifici (ad es. Zinconitide dalla tossina di chiocciola del cono), farmaci cardiaci (ad es. Lanoxin dalle piante di Digitalis), farmaci anti-cancro (ad es. Taxol dagli alberi di Taxus e Hycamtin dagli alberi di Camptotheca) e trattamenti per il diabete (incluso Exanitide delle lucertole Heloderma)” , spiega un paper sul sito della CBD, la convenzione sulla biodiversità.

Cambiamento climatico, sempre più persone a rischio

Oggi siamo concentrati sull’immensa emergenza sanitaria, la pandemia di Coronavirus COVID-19. Sebbene avremmo potuto essere maggiormente preparati – era cosa nota che sarebbe occorsa nuovamente una pandemia simile alla febbre suina o alla SARS – non sono state prese tutte le misure contingenti di precauzione. Il risultato è sotto i nostri occhi. Per il cambiamento climatico potrebbe essere peggiore. Secondo The Lancet “il climate change è un rischio potenzialmente catastrofico per la salute umana che potrebbe annullare 50 anni di miglioramenti della salute globale”.

Gli effetti con cui bisognerà confrontarsi sia in Italia ma soprattutto nei paesi meno sviluppati sono, sostiene l’Agenzia Europea per l’Ambiente, sono legati l’aumento del numero di ondate di calore (70mila morti nella sola Europa con l’ondata del 2003), siccità ed eventi alluvionali catastrofici, oltre che all’aumento della diffusione di alcune malattie. Per l’OMS nel 2030, l’Africa sub-sahariana pagherà il tributo più alto di morti attribuibili ai cambiamenti climatici, mentre nel 2050 il sud-est asiatico sarà la regione più colpita per quanto riguarda la salute della popolazione.

I costi diretti stimati per i danni alla salute (vale a dire esclusi i costi in settori che determinano la salute come l’agricoltura, l’approvvigionamento idrico e i servizi igienico-sanitari) sono stimati tra i 2-4 miliardi di dollari anno dal 2015 al 2030. Eppure rimaniamo fermi alle emergenze e non capiamo la portata delle problematiche ambientali. La cattiva salute dell’ambiente peggiora quella dell’uomo. Una mancanza cognitiva di soppesare la gravità della minaccia dovuta alla lontananza e alla comprensione del pericolo. Quando è vicino, qua ed ora, come il virus alle nostre porte, captiamo il pericolo. Rendetelo diffuso, invisibile, difficile da comprenderne le correlazioni e diventerà più difficile reagire. Oggi però la nostra vulnerabilità è chiara a livello globale. Sarà una nuova consapevolezza che ci guiderà all’azione?

 

 

 

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