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Coronavirus, una sfida per l’Africa

Il contagio in Africa potrebbe essere una complicazione drammatica della pandemia globale, che l’Oms teme maggiormente. Età, spostamenti limitati e azione preventiva potrebbero rallentare la diffusione. Mancano infrastrutture ospedaliere, Icu e laboratori di analisi.

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«Il mio continente deve svegliarsi, abbiamo visto cosa è successo negli altri paesi e continenti». A parlare è direttore generale dell’Oms Tedros Adhanom Ghebreyesus durante l’ultimo briefing su Covid-19. Ghebreyesus, nativo di Addis Abeba, concentra in una frase la situazione: l’Africa deve prepararsi al peggio.

Nella Dashbord qua sotto, realizzata dall‘Oms con Esri e resa pubblica potete vedere i casi africani paese per paese, con il numero dei casi, dei morti e dei guariti. Al 24 marzo erano ben 43 i paesi già contagiati sebbene con numeri al momento contenuti.

 

Il contagio in Africa potrebbe essere una complicazione drammatica della pandemia globale, che l’Oms teme maggiormente, sia per via della fragilità dei sistemi sanitari africani, sia per via del fatto che si tratta di paesi in cui sono già diffuse altre malattie gravi come ebola, malaria, tubercolosi e Hiv. In tanti paesi la terapia intensiva (Icu) si trova solo nella capitale. «In Sud Sudan a Juba ci sono meno di 30 i posti disponibili», spiega Roberta Rughetti, responsabile Programmi Africa di Amref Italia. «In Kenya ce ne sono circa 150 tra pubblico e privato, ma in un grande ospedale provinciale come Nakuru, ne ha in tutto 5».

Il continente africano in allerta

Nessuna nazione però sta prendendo la situazione sottogamba, memori della recente crisi Ebola, solo recentemente conclusasi in Congo. «Il continente, consapevole di questa situazione ha giocato d’anticipo», spiega Vincenzo Racalbuto, direttore della sede estera Aics di Khartoum. «Sono stati subito chiusi molti aeroporti e limitati gli spostamenti, per non favorire la diffusione, oltre che verificata la temperatura di tutte le persone in entrata». Ci sono poi elementi contestuali che potrebbero influire positivamente sull’impatto complessivo del Covid-19 in Africa subsahariana. Innanzitutto Covid-19 ha dimostrato di diffondersi meno facilmente in regioni dove il clima è più caldo (ipotesi però non ancora corroborata da evidenze scientifica). Gli spostamenti sono più limitati rispetto all’Asia ed Europa, sia internazionali che domestici. Inoltre nella maggior parte dei paesi africani la popolazione è molto più giovane rispetto all’Europa in generale e all’Italia in particolare. Per fare un confronto con alcuni paesi dove il virus si è diffuso di più, in Cina l’età media della popolazione  è 37 anni, in Italia 45 e in Spagna 43. In Nigeria e in Congo l’età media della popolazione è attorno ai 18 anni.

Il paese più colpito del Continente al momento è il Sud Africa. «Abbiamo visto un aumento dei casi, ma i sudafricani hanno iniziato a prendere precauzioni», spiega il Professor Mosa Moshabela, della School of Nursing and Public Health della University of Kwazulu Natal. «Distanziamento sociale e precauzioni sono fondamentali». L’Etiopia ha serrato le frontiere e schierato l’esercito. In Somalia il primo caso si è registrato il 19 marzo. Ma le autorità mediche locali temono. «Se questo virus ha ucciso migliaia di persone in paesi sviluppati come la Cina e l’Italia, si può immaginare quale sarà il bilancio delle vittime in Somalia, se non si contiene», commenta ad Al Jazeera, Mohamed Mohamud Ali, presidente della Somali Medical Association. «Attualmente, non disponiamo di un singolo kit di test nel paese. Spediamo campioni in Sudafrica e aspettiamo almeno tre giorni per conoscere i risultati. Questa è una grande sfida per noi». 

 

La situazione vista dalla cooperazione italiana

«La situazione è relativamente sotto controllo, noi aggiorniamo i dati due volte al giorno», spiega Roberta Rughetti, con prevalenza dei casi nei paesi dell’Africa mediterranea e in Sud Africa. «Gli spostamenti sono ridotti, le riunioni cancellate, gli assembramenti ridotti e si cerca di favorire nel possibile il lavoro da casa.Stanno avendo un peso importante per la diffusione di informazioni le tecnologie mobile». In Kenya, ad esempio, Amref ha sviluppato una app per la divulgazione ottimizzata delle informazioni mediche e la formazione del personale sanitario. «Questo consente di raggiungere 74 mila operatori che implementano politiche anti-Covid per comunità con migliaia di persone», continua Rughetti.

Uno degli aspetti più critici di quasi tutti i paesi subsahariani è dato dalla insufficiente capacità di fare diagnosi di laboratorio», spiega Racalbuto. «Il Sudan come tanti altri paesi africani necessita di strutture sanitarie adeguatamente attrezzate, in grado di effettuare test di virologia per Coronavirus – si pensi che ad oggi sono stati eseguiti solo 60 tamponi – ma anche Chikungunya, Dengue e altre malattie virali. I pazienti malati di Coronavirus hanno bisogno di ospedali tecnicamente avanzati che generalmente non sono presenti in queste realtà in ragione degli alti costi che questo livello di assistenza comporta. Le diffuse condizioni di povertà, la scarsità di strutture sanitarie efficienti e organizzate, la carenza di personale sanitario adeguatamente preparato, rappresentano altrettanti fattori ostativi all’organizzazione di una azione di contrasto efficace ad una eventuale diffusione della malattia».

Il coronavirus sta entrando in un continente che già fronteggia gravi problematiche sanitarie, con sistemi sanitari inadeguati a sostenere il tremendo impatto che potrebbe comportare la sua diffusione. Bisogna sperare che la diffusione rimanga limitata, nel tempo e nello spazio.

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