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Rigenerare il pianeta per governare i fenomeni migratori

Per chi studia i fenomeni migratori appare sempre più evidente come l’acqua e il suolo siano i principali fattori ambientali che condizionano la mobilità e che più risentono del cambiamento climatico. Ecco perché le crisi idriche e l’erosione di suolo sono state inserite tra le principali cause delle migrazioni dal Global Risk Report 2016.

Gli addetti alla Difesa la chiamano “climate security”. Si tratta dell’inclusione sotto ogni aspetto del cambiamento climatico nelle strategie di difesa e geopolitiche di adattamento ai nuovi scenari imposti dal climate change. Nel 2016 il Dipartimento della Difesa Americana ha definito il cambiamento del clima “un moltiplicatore di minacce e instabilità” con elevato potenziale di accrescimento di crisi umanitarie, migrazioni e interventi militari, oltre che un’erosione della stabilità delle infrastrutture della sicurezza, dalle basi militari all’efficacia delle operazioni di polizia. Con buona pace del “climanegazionista” Donald Trump.
Eppure il tema più importante inerente alla sicurezza riguarda la possibilità di uno sviluppo sostenibile per tutti i popoli. Quando cessano di sussistere le condizioni ambientali per la crescita economica, per l’agricoltura, l’allevamento, quando è impossibile perseguire un’esistenza serena e in sicurezza, dall’alba dei tempi, gli esseri umani, per adattarsi alle nuove condizioni ambientali, si spostano. Ma in un mondo di stati-nazione, con oltre sette miliardi di persone, con sempre meno suolo fertile disponibile, le migrazioni di massa, sia domestiche che internazionali, potrebbero presto tramutarsi in instabilità politica di larga scala, tensioni sociali diffuse e anche vere e proprie guerre.

«Gli effetti di queste migrazioni ambientali potrebbero essere spaventosi», afferma Grammenos Mastrojeni, Coordinatore per l’Ambiente e la Cooperazione allo Sviluppo del Ministero degli Affari Esteri, e autore del libro Effetto Serra, Effetto Guerra, «si andrebbe verso un potenziale di migrazione di quasi un miliardo e mezzo di persone, principalmente provenienti da ecosistemi fragili e società fragili». Come le zone aride, le aree montuose, gli stati insulari e le zone costiere più vulnerabili: tutte regioni del pianeta esposte agli effetti perigliosi del cambiamento climatico. La regione più colpita? Saranno i due versanti himalayani, dove a causa della fusione dei ghiacciai inizieranno periodi siccitosi alternati a fenomeni piovaschi estremi».

Per le associazioni ambientali, come Italian Climate Network, parlare di migrazioni significa affrontare politiche di decarbonizzare dei paesi sviluppati, innanzitutto. «La scienza è chiara, bisogna focalizzarsi sia su mitigazione che su adattamento, con impegni condivisi da tutti i paesi sviluppati e meno sviluppati», afferma Francesca Mingrone, responsabile di Italian Climate Network. «Serve aumentare l’ambizione all’interno dell’accordo di Parigi se non si vogliono acuire i fenomeni migratori. L’Europa deve eliminare i sussidi alle fonti fossili e promuovere sulle rinnovabili una Strategia Energetica Nazionale ancora più ambiziosa».

Per chi studia i fenomeni migratori appare sempre più evidente come l’acqua e il suolo siano i principali fattori ambientali che condizionano la mobilità e che più risentono del cambiamento climatico. Lo ribadiscono organizzazioni non governative come Gvc, Oxfam, Save the Children e istituzioni internazionali come il World Economic Forum, che nel suo Global Risk Report 2016 le crisi idriche e l’erosione di suolo sono state inserite tra le principali cause delle migrazioni. In generale, dal 2009 una persona al secondo ha dovuto lasciare la sua terra a causa di eventi meteo-catastrofici. Nel solo 2016 ci sono stati 22,5 milioni di profughi ambientali, di cui una parte per problemi legati all’acqua, come siccità, inondazioni, innalzamento del livello del mare. Al 2050, secondo i calcoli del professor Norman Myers dell’Università di Oxford, i profughi legati agli effetti del cambiamento climatico potranno essere oltre 150 milioni. Attualmente, circa 1,6 miliardi di persone, una su quattro, risiedono in paesi con scarsa disponibilità̀ fisica di acqua, e le previsioni indicano che in un ventennio la cifra potrebbe raddoppiare. In maggioranza vivono in paesi con scarsa disponibilità finanziaria – come nel caso dell’Etiopia – per realizzare le infrastrutture necessarie a ovviare alla penuria d’acqua, né hanno la volontà politica di aderire a trattati e ad accordi bi- e multilaterali, o un’adeguata capacità di governance.

Molti dei migranti ambientali però avranno una caratteristica: si sposteranno internamente, a livello domestico, interessando soprattutto le fasce più povere, i piccoli agricoltori, che non hanno le risorse per spostamenti di lungo raggio. Questi soggetti, in alcuni casi particolarmente acuti, rimarranno intrappolati nelle aree colpite, privi di qualsiasi mezzo per spostarsi, se non a piedi. Dando luogo a situazioni di emergenza prolungata.

Tuttavia si può guardare a questo tema anche con ottimismo e risoluzione. «La cooperazione propone una filosofia tipicamente italiana, che parta dalla riscoperta dell’agricoltura rigenerativa, dello slow food e del valore dei territori», spiega Mastrojeni. «Intervenire sulla rigenerazione significa partire dall’anello più debole dello sviluppo. Dove c’è degrado della natura c’è degrado della produttività». Questo framework tutto italiano sta iniziando a diffondersi tra le Ong e altre istituzioni internazionali che vedono una grande opportunità d’intervento sulle cause alla base degli spostamenti di popolazione. Lavorando sul ripristino dei servizi ecosistemi si fanno ripartire i cicli del carbonio, dell’acqua, dell’azoto e quindi si rigenerano i suoli, elemento chiave, insieme all’acqua, per far tornare la produttività. «La gestione del territorio e la riscoperta degli equilibri naturali diventa una scelta obbligata, che deve essere trasversale a ogni progetto di cooperazione internazionale, in un’ottica di economia circolare di larga scala. Iniettando questa visione in tutti i progetti esistenti si possono avere degli impatti rilevanti, a costi limitati», continua Mastrojeni.
Recuperare un ettaro di terreno degradato ha costi molto variabili, dalle poche diecine di dollari dei terreni semiaridi e semidegradati nelle condizioni più favorevoli, alle diecine di migliaia necessarie per restaurare, ad esempio, i biomi costali complessi. Tuttavia, la maggior parte dei terreni ove si sta materializzando il nesso degrado – instabilità sono recuperabili a un costo non superiore ai 250 dollari all’ettaro e questi suoli sono per lo più localizzati nelle aree di provenienza delle crescenti ondate migratorie che investono l’Europa, specialmente nel Sahel. Il loro recupero li trasforma in pozzi di carbonio il cui assorbimento annuale tende a equivalere al risparmio di emissioni conseguibile con un investimento in energie rinnovabili di 1000- 1500 dollari USA. Rigenerare il pianeta è l’unica chiave per permettere un futuro prospero alle popolazioni nei propri territori.

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