Ultimi articoli

  /  Voci dal campo   /  La rinascita dei Buddha: una seconda vita per Bamyan, luogo di identità collettiva e della memoria

La rinascita dei Buddha: una seconda vita per Bamyan, luogo di identità collettiva e della memoria

Afghanistan, crocevia di popoli condizionato da un forte isolamento culturale: qui l’Italia partecipa al Bamyan Working Group che, insieme a UNESCO, studia soluzioni per la ricostruzione dei buddha distrutti dalla dinamite talebana.

Ricordo che era la primavera del 2002 quando mi recai per la terza volta nel cuore del Ladakh, stato himalayano dell’India soprannominato il “piccolo Tibet”, in occasione del festival di danza del monastero buddista di Lamayuru, fondato intorno all’anno mille e situato su una rocca naturale a tremilacinquecento metri di altitudine.

Ero in India in qualità di direttore dell’Ufficio di Cooperazione allo Sviluppo nella nostra ambasciata di Nuova Delhi e la mia permanenza si protrasse per 4 anni e mezzo, dal 1999 al 2004.

Ciò che mi sorprese fortemente nel corso del festival fu la presenza di un numero di musicanti, non più di sei, che indossavano cappelli da cui spuntavano fiori. Nulla di sorprendente se l’aspetto di quegli uomini non fosse stato fortemente europeo; due di essi avevano addirittura gli occhi azzurri. La mia curiosità mi spinse ad indagare e scoprire che i cosiddetti “uomini dei fiori” erano gli eredi delle truppe di Alessandro Magno presenti in Ladakh da oltre 2300 anni; si guadagnavano da vivere con attività agricole e portando musica nei monasteri buddisti sparsi nel piccolo ex regno himalayano.

Varie questioni, ricordo, affiorarono alla mia mente. Come mai non era nota questa fragile testimonianza di un millenario passato destinata presto ad estinguersi? Come era sopravvissuta per 2 mila anni questa presenza aliena in un territorio himalayano impervio e lunare? Domande a cui forse è possibile dare risposta scoprendo l’esistenza del villaggio di Malana a oltre 3000 metri di quota, su un altopiano alle pendici dell’Himalaya, nello stato indiano dell’Himachal Pradesh. I suoi abitanti hanno tratti somatici che ricordano quelli europei – pelle ed occhi chiari, capelli biondi – radicalmente differenti da quelli dei popoli vicini. Inoltre, hanno una lingua ed una religione diverse dalle altre parlate in quell’area ed un sistema politico democratico che potrebbe fare della loro repubblica la più antica del mondo.

La leggenda vuole che i suoi abitanti siano i discendenti degli ufficiali greci e macedoni ribelli che si rifiutarono di proseguire nella corsa alla conquista del mondo allora conosciuto, decidendo di fermarsi e di stabilirsi lì.

La presenza greca, la possibilità che il nostro DNA abbia viaggiato e si sia stabilmente trasferito in Asia oltre 2000 anni fa, mi ha sempre affascinato e spinto a riscoprire la stessa testimonianza in altri paesi della regione ed in particolare in Afghanistan ove ho ricoperto la funzione di Direttore della locale sede dell’Agenzia di Cooperazione allo Sviluppo per 2 anni sino alla fine del 2017. In Afghanistan sono evidenti e visibili i reperti della cosiddetta arte greco-buddhista, opera di sincretismo tra la cultura dell’antica Grecia e il buddhismo; sviluppatosi entro un periodo di circa mille anni nei territori dell’Asia centrale, a partire delle conquiste effettuate da Alessandro Magno nel IV secolo a.C. fino all’invasione islamica dal VII secolo in poi che si concluse con l’invasione musulmana del subcontinente indiano.

L’arte greco-buddhista si caratterizza per il forte senso di realismo idealistico di origine ellenistica. Le prime rappresentazioni del Buddha in forma umana hanno contribuito a definire il Canone (arte) artistico (ed in particolare quello scultoreo) per lo sviluppo espressivo dell’arte buddhista in tutto il continente asiatico fino all’età contemporanea. È anche uno dei maggior esempi di cultura sincretica nata dalla commistione delle tradizioni orientali ed occidentali.

Le origini dell’arte greco-buddhista sono presenti, dal periodo ellenistico, nel regno greco-battriano (250-130 a.C.) il quale estendeva i propri domini nei territori in cui si trova l’attuale Afghanistan; da qui la cultura ellenistica si irradiò presto in direzione dell’India, con l’istituzione del regno indo-greco (180-10 a.C.). Sotto gli indo-greci l’interazione tra cultura greca e buddhista si ampliò sino a fiorire nella zona comprendente il Regno di Gandhāra, nella regione a nord dell’attuale Pakistan. La corrente greco-buddhista viene denominata corrente del Gandhara e si afferma sopratutto in Afghanistan da sempre un crocevia di culture diverse e in tempi più recenti un importante passaggio sulla via della seta. In particolare Bagram, fondata da Alessandro Magno, Bamyan e Kandahar sono le città più conosciute e ricche di reperti archeologici. I buddha di Bamyan, risalenti al III secolo A.D., rispettivamente di 53 e 38 metri, rappresentavano, prima della distruzione da parte talebana, un esempio di arte gandharica genuino; un esempio di come l’arte figurativa buddhista fosse influenzata da culture diverse, da un ambiente vivace in continua evoluzione e pervaso da una religiosità di origini non necessariamente buddhiste.

Purtroppo le considerazioni appena espresse si sono perdute nel tempo e l’Afghanistan, da sempre crocevia di culture e popoli, è da anni martoriato da una guerra civile che lo ha escluso dal mondo esterno e relega il paese ad un isolamento culturale mai sperimentato nel corso della sua storia. Inoltre è palese il pericolo a cui viene esposto il patrimonio culturale che, soprattutto nell’area di Bamyan, ha subito danni irreparabili a siti già classificati quali “patrimonio dell’umanità in pericolo” da parte dell’UNESCO.

Nel 2001, i talebani distrussero le due gigantesche statue del Buddha. Scolpite in una parete rocciosa, le statue erano una parte iconica e integrante del più vasto panorama culturale della Valle di Bamiyan.

Molto tempo dopo il declino del buddismo nella regione, le statue continuarono a essere una fonte di orgoglio nazionale in Afghanistan. La loro distruzione nel 2001 fu una perdita significativa per il paese e per l’umanità.

Nel paese vi è una crescente consapevolezza che la distruzione delle proprietà culturali non è solo una perdita per l’umanità; influenza anche l’identità, la storia, l’integrità, i ricordi e la dignità delle popolazioni locali. Pertanto, la ricostruzione del patrimonio culturale in risposta a atti di distruzione deliberata dovrebbe essere affrontata non solo dal punto di vista della filosofia della conservazione materiale, ma più ampiamente, attraverso strategie olistiche per la protezione e il progresso dei diritti umani, promozione della costruzione della pace e sviluppo sostenibile.
Sulla base dei principi di queste prospettive più recenti, è necessario trarre conclusioni che prevedono nuove strade da esplorare per il recupero, la riabilitazione, la ricostruzione e la rivitalizzazione delle proprietà del patrimonio culturale distrutte da atti di violenza.

Da tali considerazioni nasce la disponibilità della Cooperazione Italiana e di UNESCO a sostenere il governo afghano nel preservare, conservare e sviluppare un patrimonio culturale comune, sovente poco conosciuto, ma che esprime una genetica variegata, inclusiva, multiculturale, pervasiva di un pluralismo identitario globale, attraverso il finanziamento di un progetto di cooperazione allo sviluppo dell’ammontare iniziale di oltre 4 MEURO.

In sintesi la Cooperazione Italiana, in cooperazione con UNESCO, ha programmato la rivitalizzazione di uno dei buddha di Bamyan (quello di 38 metri) e la creazione di un parco archeologico antistante la zona dei buddha.

Tale iniziativa trae origine dalla partecipazione della Cooperazione Italiana al “Bamyan Working Group”, un gruppo di lavoro composto da esperti italiani, tedeschi, giapponesi, coreani e UNESCO che da 15 anni studia soluzioni finalizzate alla ricostruzione dei buddha distrutti dalla dinamite talebana. Nel corso di una riunione del gruppo a Monaco di Baviera, tenutasi a fine 2016, sono emerse alcune proposte di seguito presentate nel corso di una Call for Proposal dell’UNESCO e oggetto di una Conferenza su Bamyan a Tokio a fine 2017.

Dalla Conferenza di Tokio è emerso quanto segue:

  1. la distruzione illegale e intenzionale del patrimonio culturale (dichiarazione del 2003) può privare le comunità locali e gli stati nazionali del loro senso di identità, orgoglio e opportunità di conoscere e trasmettere il patrimonio culturale alle generazioni attuali e future. Inoltre, priva l’umanità della diversità di espressione artistica e culturale, che costituisce un patrimonio globale condiviso;
  2. Il paesaggio culturale e i resti archeologici della proprietà Bamiyan Valley World Heritage rappresentano le opere combinate di persone e natura. Il paesaggio di Bamiyan è un ambiente in continua evoluzione, unito da complesse pratiche sociali, tradizioni e sistemi naturali che hanno formato un carattere distintivo e influenzato il rapporto tra le comunità locali e il loro ambiente. Pertanto, l’OUV (Outstanding Universal Value) del sito vale più delle sue caratteristiche fisiche;
  3. la proprietà Bamiyan World Heritage dovrebbe essere considerata un luogo di identità collettiva e memoria, in particolare per le comunità locali; i resti archeologici non possono essere separati dal loro paesaggio naturale e culturale, né dalle prospettive locali.
    Pertanto, in conformità agli “Orientamenti operativi per l’attuazione della Convenzione del patrimonio mondiale”, “la ricostruzione di resti archeologici o di edifici storici o distretti è giustificabile solo in circostanze eccezionali. La ricostruzione è accettabile solo sulla base di una documentazione completa e dettagliata e in nessun caso su congetture “; pertanto, qualsiasi ricostruzione del sito in qualsiasi forma delle statue di Buddha può essere giustificata solo sulla base di argomentazioni valide e nella misura in cui contribuisce sia all’OUV del sito che al processo di costruzione della pace nel paese.

Le soluzioni proposte sono in corso di vaglio e selezione, assieme al governo afghano, al fine di scegliere la più idonea a ripristinare la presenza delle figure dei buddha e a infondere confidenza e fiducia della popolazione nel processo di ricostruzione del paese.

Inoltre, il progetto della Cooperazione Italiana e UNESCO, come già accennato in precedenza, prevede la creazione di un Parco Archeologico nell’area antistante i due giganteschi Buddha.

Il progetto si svilupperà attraverso:

  • Indagine preliminare dell’area;
  • Progettazione del parco stesso;
  • Bonifica dell’area attraverso un’azione di de-mining coordinata con UNMAS;
  • Costruzione fisica del parco;
  • Sviluppo di un sistema di percorsi pedonali e ciclabili trattandosi di un Parco destinato a diventare una ‘infrastruttura sociale’ connessa con altri spazi culturali nella Valle (incluso il Centro Culturale Bamiyan e Shar-i-Ghulgula già oggetto di riabilitazione da parte della Cooperazione Italiana).

L’attività include una componente importante del rafforzamento delle capacità tecniche ed istituzionali destinate agli afghani durante tutto il processo. Trattandosi di un’attività che integra le competenze archeologiche / di conservazione con la progettazione architettonica e la costruzione, si genererà l’opportunità di coprire una vasta gamma di competenze professionali. Ciò introdurrà anche un importante cambiamento nell’approccio generale ai siti del patrimonio in Afghanistan, favorendo l’idea che gli architetti possano lavorare con i conservatori per trasformare queste aree in spazi pubblici in cui la comunità può sperimentare e godere della bellezza della sua storia e identità.

Chiudere questo articolo con la speranza che nell’immediato futuro i buddha di Bamiyan possano divenire accessibili alla comunità internazionale sarebbe alquanto irrealistico. La guerra in Afghanistan non si concluderà in tempi brevi. Ma la pace si costruisce anche attraverso un processo lento di consapevolezza del proprio passato e dalle lezioni che questo può insegnarci. L’Afghanistan è stato nei secoli un esempio di tolleranza, di sincretismo politico, culturale e religioso per l’umanità. Il popolo afghano è ospitale, generoso, aperto alla modernità che la guerra gli impedisce.

La speranza risiede nel valore aggiunto, nel costante e quotidiano contributo che iniziative come quella summenzionata possano fornire al processo di pace e riconciliazione più volte auspicato e voluto dal popolo afghano.

Informazioni sull'autore

AICS Roma Ex direttore degli Uffici di Cooperazione allo Sviluppo di Nuova Delhi, Pechino e Kabul

You don't have permission to register