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Crisi idrica, filantropia e privatizzazioni. Esce Sete, il nuovo libro di Filippo Menga

Nel suo nuovo lavoro il geografo si interroga sui possibili percorsi alternativi per rispondere all'ormai cronica scarsità d'acqua. Oltremare lo ha intervistato in anteprima

La crisi idrica può diventare un meccanismo per spingere privatizzazioni, marketing, iniziative commerciali, falsa filantropia, spostando su cittadini e cittadine la responsabilità di interi settori economici? Come ci dobbiamo confrontare con la necessità di cooperazione per affrontare le questioni sistemiche della gestione idrica, accesso all’acqua e ai servizi igienico sanitari?

Il geografo Filippo Menga, dell’Università degli studi di Bergamo, editor in chief della rivista Political Geography e autore già di testi accademici come Power and Water in Central Asia (Routledge) e Water, Technology and the Nation-State (Earthscan), a breve pubblicherà Sete, un libro che approfondisce il complesso rapporto tra crisi idrica e appropriazione capitalistica della risorsa, andando ad analizzare il complesso rapporto tra multinazionali, filantropia, beni comuni e privatizzazioni.

Oltremare ha incontrato Menga per meglio comprendere lo stato della crisi idrica, la necessità di rafforzare la cooperazione blu e prestare attenzione a come alcuni attori economici possano usare le crisi idriche, reali o supposte, a proprio vantaggio, favorendo eccessivamente il ruolo del privato.

Da una decina d’anni accademia, giornalismo e società civile sottolineano sempre più la preoccupazione per lo stato dell’acqua a livello globale. Che succede?

La crisi idrica è strutturale. Quello che è sorprendente è che se ne parli ancora in termini sensazionalistici nonostante siamo esposti a questi problemi da oramai quarant’anni. Eppure, ce ne interessiamo solo quando la crisi si fa più marcata. La differenza è che nel contesto europeo e in Italia, la crisi idrica è diventata continuativa, non lascia tregua, e quindi per la prima volta stiamo iniziando a riflettere seriamente su come il nostro rapporto con la risorsa sta cambiando. Da febbraio numerose regioni che si affacciano sul Mediterraneo stanno preparandosi a fronteggiare una ridotta disponibilità d’acqua, come già successo in altri anni: la Sardegna, la Catalogna, la Sicilia. A Barcellona stanno arrivando delle navi cisterna da Valencia che portano acqua.

Queste però sono misure straordinarie per una crisi che è all’ordine del giorno, ogni giorno. Se non si affronta in maniera sistemica è chiaro che ci troveremo ciclicamente per i prossimi mesi o anni a commentare delle notizie che si assomiglieranno tutte.

La crisi è ancor più complessa in quei Paesi dove mancano infrastrutture e know how per gestire una crescita della domanda e una riduzione dell’offerta, inficiata ancor di più dagli effetti del cambiamento climatico. Che ruolo ha la cooperazione in questa sfida?

Nelle aree più critiche del pianeta la cooperazione allo sviluppo ricopre un ruolo centrale per affrontare le criticità legate all’acqua. Ma è fondamentale che le varie agenzie di cooperazione allo sviluppo tentino di agire in maniera armonica e coordinata. Purtroppo, non accade spesso. In contesti che conosco bene per lavoro – Asia centrale, Africa orientale – ci sono agenzie e Ong che operano in maniera disgiunta, senza portare risultati. C’è una battuta che gira tra gli esperti: se ogni consulente invece di lavorare a un progetto di sviluppo sul lago d’Aral avesse portato un secchio d’acqua negli ultimi trent’anni, il lago oggi sarebbe pieno.

Inoltre è fondamentale la mobilitazione di capitali, che sempre di più scarseggiano a livello globale, dalle Nazioni Unite alla cooperazione bilaterale. Anche l’Unione europea che ha delle forti ambizioni per avere un ruolo di rilevanza nello sviluppo sostenibile deve affrontare un problema di parcellizzazione e rendere sistemica la cooperazione blu.

Nel libro analizzi e critichi come certa filantropia movimenta importanti risorse, spesso però più per scopi economici e di immagine, che di reale cooperazione.

In Sete analizzo alcuni casi studio, tra cui due riguardanti i più grossi enti filantropici nel settore idrico: Water.org e WaterAid. La prima, espressione di una superstar, Matt Damon, la seconda dell’establishment industriale del Regno Unito, dove il settore privato idrico ha fatto parecchi danni. In entrambi i casi le buone intenzioni filantropiche vengono gradualmente oscurate dalla logica di mercato che domina la governance globale dell’acqua e dalla necessità sempre più pressante di mobilitare i “soldi veri” per realizzare la loro visione. Emerge così un’economia politica della cura, realizzata attraverso partnership con società idriche transnazionali e banche d’investimento, nonché campagne di microcredito e donazioni che seguono i modelli di consumo. In questo modo, le organizzazioni benefiche per l’acqua finiscono per riprodurre, normalizzare e legittimare lo stesso sistema e gli stessi rapporti di sfruttamento responsabili delle disuguaglianze e dei problemi ambientali che cercano di risolvere.

Il tema delle privatizzazioni è criticato ampliamente nel tuo libro.

Negli anni Novanta si stima che fossero circa 50 i milioni di persone nel mondo che ricevevano la loro acqua da aziende private. Oggi siamo tra gli 800 e 900 milioni di persone. Quindi è chiaro che c’è stata una fortissima tendenza alla privatizzazione. La più forte crescita si è registrata in Africa. Ci sono dei colossi soprattutto francesi, come Suez-Veolia, che hanno in appalto la fornitura idrica in alcune delle principali città africane, come Casablanca e Algeri. Se prendiamo il Regno Unito, il primo paese a privatizzare completamente il servizio idrico, oggi offre un servizio carente. E se oggi il governo inglese volesse ricomprare le oltre trenta imprese private che gestiscono l’acqua in Inghilterra e Galles non riuscirebbe a farlo perché sono cresciute talmente tanto e si sono anche diversificate talmente tanto in un sistema di scatole cinesi e fondi di investimento con base sia nel Regno Unito che fuori dall’Europa

Questo è un modo di imporre un’egemonia economica che talvolta diventa sinonimo di neo-colonizzazione economica. Anche nel nostro Paese, secondo consumatore al mondo di acqua in bottiglia, dopo il Messico, dove l’acqua proviene dalle stesse fonti, in alcuni casi, degli impianti idropotabili, trasformiamo un bene pubblico in privato. Privatizzazione e mercificazione sono rischiose e contraddicono la natura di questi beni, comuni e pubblici. Invece il mercato, ma anche la filantropia, come espongo nel libro, creano meccanismi e forme mentali che ci danno l’illusione di risolvere un problema, mentre in realtà stiamo solo favorendo attori privati assetati di profitto.

Biografia
Emanuele Bompan
Giornalista ambientale e geografo. Si occupa di economia circolare, cambiamenti climatici, green-economy, politica americana. È Direttore della rivista Materia Rinnovabile, collabora con testate come La Stampa, Nuova Ecologia e Oltremare. Ha scritto l’Atlante geopolitico dell’Acqua (2019), Water Grabbing – le guerre nascoste per l’acqua nel XXI secolo (2018), Che cosa è l’economia circolare (2017). Ha vinto per quattro volte l’European Journalism Center IDR Grant, una volta la Middlebury Environmental Journalism Fellowship, una volta la Google DNI Initiative ed è stato nominato Giornalista per la Terra nel 2015.
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