A che punto è la Grande Muraglia Verde dell’Africa contro la desertificazione
E perché serve rafforzare il sostegno al progetto, Italia in testa
Nel Sahel, dove le dune di sabbia del Sahara si trasformano in savana arida, 22 Stati hanno unito le forze per affrontare la ricorrente siccità e la incalzante desertificazione; negli ultimi decenni, il pascolo non regolato e i cambiamenti nei modelli delle precipitazioni hanno aumentato l’aridità sul bordo meridionale del deserto del Sahara. Secondo le analisi dei geografi il Sahara copre il 10% di terra in più rispetto a un secolo fa, quando sono iniziate le misurazioni. Per arrestare l’espansione del deserto, nel 2007 l’Unione Africana ha proposto la realizzazione di una Grande Muraglia Verde (in inglese Great Green Wall, Ggw), lunga 8.000 chilometri, che si estende da Dakar a ovest fino a Gibuti a est e copre oltre 780 milioni di ettari.
Inizialmente il progetto si proponeva solo di piantare filari di alberi nella regione del Sahel ma la sua portata è stata ampliata fino a comprendere il ripristino di terreni degradati e l’agricoltura rigenerativa, con l’obiettivo di fermare la desertificazione, ripristinare 100 milioni di ettari di territori, sequestrare 250 milioni di tonnellate di CO2 e creare 10 milioni di posti di lavoro verdi entro il 2030.
“Ad oggi, il progetto ha coperto meno del 10% dell’obiettivo di 100 milioni di ettari, ma sta facendo buoni progressi per raggiungere la scadenza del 2030”, spiega a Oltremare in una lunga intervista Moctar Sacande, coordinatore dei progetti internazionali presso la Divisione forestale della Fao, l’Organizzazione delle Nazioni unite per l’alimentazione e l’agricoltura. Non nasconde di essere nelle file degli ottimisti: “D’altronde il progetto è di vitale importanza per milioni di persone e per la stabilità della regione”. In passato però non sono mancate critiche, specie dopo i fallimenti seguiti alle piantagioni generalizzate di alberi senza davvero studiare in profondità gli ecosistemi.
La sfida per gli ottimisti non è banale. Di questo passo la Grande Muraglia Verde dovrà rigenerare almeno 15 milioni di ettari di terreno, con un costo di circa 8 miliardi di dollari ogni anno, se si vuole rispettare la scadenza, stando alle cifre stimate dalla Convenzione contro la desertificazione (United Nations Convention to Combat Desertification, Unccd).
Un progetto ciclopico
La Grande Muraglia Verde prevede che l’iniziativa di ripristino delle terre favorisca la prosperità economica dei Paesi partecipanti, crei occupazione, riduca la fame e i conflitti legati alla lotta per l’accesso e alle risorse naturali in tutta l’Africa. Una sorta di super struttura naturale, fatta di patch di terreni rigenerati, dalla savana alle aree agricole fino ai boschi di piante commerciali.
“Il progetto è di una complessità rara” continua Sacande, “è enorme dato che potenzialmente si potrebbero ripristinare 162 milioni di ettari, interessa undici Paesi del Sahel, in un territorio arido e semi arido, che riceve tra i 100 e i 600 millimetri di pioggia l’anno, pochissima. Ma sufficiente per far crescere varie specie alimentari”.
Nei primi 15 anni del progetto si è speso molto esclusivamente per piantare alberi, anche con iniziative private, come il tentativo del motore di ricerca Ecosia. Diversi tentativi non hanno però performato come ci si attendeva, gettando numerosi dubbi sul progetto. Oggi, grazie anche a un approccio rigenerativo e integrato spinto dall’Unccd e organizzazioni Onu, si cerca di ripristinare savane, aree agro-pastorali, aree umide, piante erbacee e cespugli, lavorando su una gestione del ’acqua efficiente, coinvolgendo migliaia di villaggi e comunità in maniera reticolare.
“Oltre a specie legnose utili, come l’albero della gomma che genera reddito, abbiamo piantato semi di piante erbacee, facendo attenzione a ricostruire la flora autoctona, scegliendo le specie giuste e piantandole nella stagione giusta, appena prima della stagione delle piogge”, spiega Sacande che per anni ha studiato le specie della zona. “In questo modo si rafforzano i terreni e si ricostruiscono ecosistemi”.
L’acceleratore: scaling up e meccanizzazione
L’11 gennaio 2021, durante il One Planet Summit, il presidente francese Emmanuel Macron e altri leader mondiali hanno annuncito il Great Green Wall Accelerator, un’iniziativa per dare nuovo impulso al progetto con impegni per 14,3 miliardi di dollari di finanziamenti. L’acceleratore è attualmente coordinato dall’Agenzia Panafricana per la Grande Muraglia Verde (Paaggw) con il sostegno dell’Unccd e l’implementazione di varie agenzie come Ifad o Fao. Il suo scopo è quello di rendere più efficienti i progetti legati al Green Great Wall, nel tentativo di rafforzare la governance.
“L’acceleratore ha cinque pilastri”, illustra Maxime Thibon, senior technical specialist per il climate change di Ifad che promuove la condivisione di buone pratiche tra i partner. “Il primo si occupa di creare e promuovere catena del valore e sviluppo economico sostenibile. Il secondo pilastro è dedicato al ripristino e alla gestione degli ecosistemi. Il terzo è dedicato alle pratiche di resilienza climatica e alle infrastrutture. Il quarto riguarda la governance. Infine, il quinto riguarda il capacity building”.
La Fao dal canto suo sta lavorando sulla meccanizzazione dei processi. Data la scala del Ggw non si può procedere a rigenerare in modo tradizionale, a mano, con la trazione animale, metro per metro. “Cosi abbiamo introdotto dei macchinari di origine italiana, gli aratri Delfino, una scavatrice pesante all’avanguardia, con la quale è stato possibile arare il terreno degradato e secco fino a più di mezzo metro di profondità”. Il Delfino smuove il suolo, tirando fuori lo strato più fertile, crea grandi bacini di raccolta a mezzaluna pronti per la messa a dimora di semi e piantine, decuplicando la raccolta dell’acqua piovana e rendendo il terreno più permeabile per la semina rispetto al metodo tradizionale, e faticoso, di scavare a mano.
Un’altra soluzione sono le microdighe da costruire in serie prima delle piogge. Queste strutture sono dieci volte più efficienti, dei canali tradizionali fatti a mano. E con la cattura dell’acqua si aiutano i semi piantati a germogliare, oltre che fornire una risorsa per i campi dei contadini locali.
Finanziamenti
Investire in rigenerazione è una strategia per risparmiare sui costi delle emergenze alimentari. “Insieme all’Università di Bonn, abbiamo calcolato il ritorno sugli investimenti in rigenerazione ambientale per la Grande Muraglia Verde: per ogni singolo dollaro investito il ritorno sarà tra 1,1 dollari e 4 dollari per ettaro”, spiega Sacande. Come tanti progetti di cooperazione le risorse sono sempre insufficienti, e in questi casi non è facile trovare investitori privati, serve attivare finanza pubblica, aiuti pubblici allo sviluppo (Aps), agenzie Onu o fondi dei governi coinvolti. “Spesso non si investe direttamente nel programma, si crea confusione, si disperdono i finanziamenti”, continua l’esperto Fao. Per Thibon le risorse sono fondamentali per la sopravvivenza del Ggw.
Vari esperti di ong e organizzazioni internazionali, sentiti per questo articolo, hanno ribadito che il governo italiano dovrebbe investire molto di più in questa iniziativa, facendo anche rifermento al Piano Mattei. Al momento si stima che quasi 20 miliardi di dollari siano stati programmati entro il 2025, anche se a fine marzo 2023 erano solo 2,5 miliardi quelli effettivamente sborsati. E la proiezione è di raggiungere i 33 miliardi di dollari a fine decennio. Risorse non facili da movimentare e che la incerta riforma globale della finanza per clima e biodiversità e il contorto rapporto con gli Aps rende ancora più difficile.
Emanuele Bompan
Giornalista ambientale e geografo. Si occupa di economia circolare, cambiamenti climatici, green-economy, politica americana. È Direttore della rivista Materia Rinnovabile, collabora con testate come La Stampa, Nuova Ecologia e Oltremare. Ha scritto l’Atlante geopolitico dell’Acqua (2019), Water Grabbing – le guerre nascoste per l’acqua nel XXI secolo (2018), Che cosa è l’economia circolare (2017). Ha vinto per quattro volte l’European Journalism Center IDR Grant, una volta la Middlebury Environmental Journalism Fellowship, una volta la Google DNI Initiative ed è stato nominato Giornalista per la Terra nel 2015.