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Humanitarian Impact Bond, un progetto arrivato al momento giusto, intervista a Tobias Epprecht

Non una semplice modalità, per quanto innovativa, di raccolta fondi, ma un’operazione che richiede uno sforzo significativo anche in termini di risorse umane e competenze. Parlando con Tobias Epprecht, si avverte subito come il ricorso agli Humanitarian Impact Bond rappresenti una strada nuova, sicuramente percorribile, allo stesso tempo complessa anche nel caso di una grande organizzazione come il Comitato internazionale della Croce Rossa (Cicr). Responsabile del Programme for Humanitarian Impact Investment (Phii) del Cicr, Epprecht ha coordinato le fila di un progetto che vede anche la presenza della Cooperazione Italiana e che potrebbe aprire nuovi sviluppi.

Signor Epprecht, da quanto tempo coltivavate questa idea?

Da un punto di vista finanziario, la maggior parte dei fondi che oggi arrivano al Cicr sono di provenienza governativa. Da tempo però stiamo cercando un modo per diversificare i nostri fondi, anche perché il messaggio che arriva dai vari governi è chiaro: la capacità di contribuzione non è illimitata. Abbiamo quindi avviato le prime discussioni già diversi anni fa e abbiamo iniziato a ragionare sul modello dei social impact bonds, cercando di capire se quella modalità poteva adattarsi all’ambiente umanitario e in particolare ai valori del Cicr.

Insieme ad altri soggetti, la Cooperazione Italiana è tra gli Outcome Funders del progetto pilota. Ci sono state motivazioni particolari alla base di queste scelte?

In realtà, nel caso per esempio dell’Italia, è stato quasi naturale rivolgersi verso Roma perché c’è un lungo rapporto di collaborazione con la Cooperazione Italiana; da tempo l’Italia rientra nel novero dei nostri donatori e sostiene regolarmente il Cicr. Dunque anche con la Cooperazione Italiana, come con altri enti governativi, svolgiamo incontri e discussioni ed è stato in queste sedi che abbiamo valutato il discorso dei social impact bonds. Abbiamo registrato un interesse crescente a lavorare con noi e posso dire che questo progetto è venuto al momento giusto, quando cioè l’Italia ha espresso la necessità di trovare vie alternative e innovative di finanziamento e ha visto quindi in questa iniziativa un primo banco di prova, con un’organizzazione che ben conosce, di cui comprende le modalità operative.

Parliamo degli investitori sociali, cioè di quelle realtà per lo più nuove al mondo della cooperazione che hanno deciso di finanziare il progetto pilota. È stato difficile spiegare loro il progetto? Solitamente questi investitori operano in un contesto diverso, come siete riusciti a coinvolgerli?

Sì, è vero, per molti di loro si tratta di un ambiente inedito. In altri casi, come per la banca Lombard Odier o per la compagnia assicurativa Munich re, si tratta di partner tradizionali del Cicr e il loro impegno non si esaurisce necessariamente soltanto nella parte finanziaria dal momento che danno anche un contributo nell’elaborazione dell’iniziativa. Con tutti abbiamo avuto un momento di discussione trasparente per chiarire chi siamo, come lavoriamo, quali erano le sfide, anche per far sì che gli investitori valutassero i rischi che si stavano assumendo. Al termine di questi incontri conoscitivi i nostri partner hanno deciso di sostenerci.

Il progetto pilota fa perno su tre strutture sanitarie dedicate alla riabilitazione fisica di persone rimaste ferite a causa dell’esplosione di residuati bellici e mine, in Nigeria, Repubblica democratica del Congo e Mali.

Generalmente il Cicr sostiene programmi o centri riabilitativi nei vari Paesi in cui interviene, talvolta invece avviamo strutture non ancora esistenti. Attualmente sosteniamo circa 130 centri o progetti di questo genere in diverse zone del mondo e abbiamo quindi una esperienza significativa. Nei tre Paesi scelti per il progetto pilota realizzeremo centri totalmente nuovi. Siamo arrivati a fare queste scelte dopo aver mobilitato nostre missioni: sono state svolte indagini preliminari che hanno evidenziato la necessità di maggiori servizi sanitari. Sono dunque partiti nove studi di fattibilità in nove differenti contesti, poi finalizzati nella ricerca di fondi per la costruzione di centri sanitari, di terre disponibili, di partner locali e così via, e alla fine abbiamo selezionato questi tre Paesi all’interno dei quali poter operare secondo lo schema degli Humanitarian Impact Bonds.

Il presidente del Cicr, Peter Maurer, spera che il successo di questo progetto renda possibile dimostrare l’efficacia di modelli finanziari non tradizionali. Forse però per questo tipo di interventi, relativi cioè a progetti di riabilitazione fisica, è più facile misurare la portata dei progressi a mano a mano ottenuti. Pensa che gli Humanitarian Impact Bonds possano essere applicati anche ad altri settori?

Questo progetto può andar bene per l’ambito della riabilitazione o delle infrastrutture, per diversi contesti sanitari. Non può essere applicato a tutti i tipi di settori, per il fatto che in tali interventi c’è bisogno di conoscere in anticipo l’evoluzione delle necessità, le capacità da implementare e c’è da tenere in considerazione il quadro temporale.

Voi avete lavorato con istituzioni finanziarie e con Outcome Funders, con attori che quindi provengono da realtà differenti; quali sono state le difficoltà che avete avuto nell’avvicinare questi due mondi? Nell’approccio culturale per esempio, dal momento che avete dovuto fare i conti con meccanismi propri delle istituzioni finanziarie, mentre gli investitori hanno dovuto capire cosa significa fare cooperazione.

Sì, con questo intervento abbiamo messo insieme due mondi differenti e questo ha comportato sfide ma anche opportunità. Per esempio abbiamo imparato a guardare ai programmi anche secondo una prospettiva diversa dalla nostra. Da un lato si è cercato di inserire nei progetti dei dati misurabili per controllare i risultati, l’andamento delle operazioni, e determinare quindi il successo o il fallimento dell’investimento. Perciò anche gli Outcome Funders si son dovuti confrontare con questi nuovi soggetti, con questi nuovi metodi di misurazione. Un processo non facile, sicuramente ricco di aspetti positivi, utili anche per migliorare il nostro operato.

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