Territorio

Un uso sostenibile del territorio è strettamente legato a scelte di valorizzazione, pianificazione e progettazione sostenibili. In tal senso la sostenibilità è da intendere anche come approccio ad una rigenerazione integrata in cui la componente ambientale vada di pari passo con quella sociale. Perché l’ambiente dei Paesi Partner sia tutelato, il territorio deve essere ripensato […]

Tempo di lettura

4 min

Un uso sostenibile del territorio è strettamente legato a scelte di valorizzazione, pianificazione e progettazione sostenibili. In tal senso la sostenibilità è da intendere anche come approccio ad una rigenerazione integrata in cui la componente ambientale vada di pari passo con quella sociale.

Perché l’ambiente dei Paesi Partner sia tutelato, il territorio deve essere ripensato e rigenerato nel suo complesso. Attraverso l’utilizzo di strumenti pianificatori adeguati si possono valorizzare le aree verdi, rendere più “green” ed energeticamente sostenibili le aree edificate, ripensare la mobilità in maniera sostenibile, migliorare le aree agricole e rendere maggiormente sostenibili i processi produttivi e costruttivi (agricoli, edili e altro). Inoltre, le infrastrutture e in senso ancora più ampio gli insediamenti abitativi, per ridurre il proprio impatto e le proprie emissioni devono essere ripensati come “bio-spazi”, ossia spazi capaci di integrare aree verdi, energie rinnovabili, materiali locali e pratiche di economia circolare.

La gestione sostenibile del territorio è dunque integrata e complessa. Solo approfondendo la conoscenza del territorio è possibile progettare iniziative sulla riduzione dei rischi causati da disastri ambientali e climatici, come terremoti, dissesti idrogeologici, erosione costiera e desertificazione. La riduzione dell’impatto ambientale e dei rischi e la salvaguardia del territorio (inteso come patrimonio naturale e culturale insieme) contribuiscono, a loro volta,  alla salvaguardia della biodiversità.

La sfida urbana

La sfida demografica e climatica globale riporta le città al centro del dibattito internazionale.

Le città già oggi accolgono più del 54% della popolazione mondiale e producono più dell’80% del PIL mondiale e sono responsabili dei 2/3 dei consumi energetici globali e più del 70% delle emissioni globali. Se i trend demografici non cambieranno, nel 2030 la popolazione urbana mondiale arriverà al 60,4%. Tale incremento avverrà per il 96% nelle regioni meno sviluppate di Africa e Asia. L’impatto delle città sulla lotta alla povertà e al cambiamento climatico è quindi la sfida del presente.

Una delle più grandi sfide globali del futuro, è dunque la sfida urbana, che sta concentrando sempre maggiore attenzione e risorse a livello internazionale. Il tema di EXPO 2030 “Persone e territori, rigenerazione urbana, inclusione e innovazione” pone ad esempio l’accento sulle città, come anche il recente dibattito in ambito G20 2021, sotto Presidenza italiana, che ha stimolato anche in AICS una fase di studio e ricerca sullo sviluppo urbano sostenibile delle città. Il focus sull’applicazione dei 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile a livello locale è stato incentrato in particolare sulle città “secondarie” e sulla creazione di una piattaforma per la condivisione di buone pratiche in questo ambito. La gestione sostenibile degli ambienti urbani e della loro crescita svolge un ruolo significativo sulla lotta alla povertà e al cambiamento climatico e, per questo, l’urbanizzazione è diventata un punto centrale dell’Agenda per lo sviluppo sostenibile e sulle città si stanno concentrando numerosi programmi e azioni globali di sviluppo.

La vera sfida dello sviluppo sostenibile per il futuro è dunque quella urbana e le città sono al centro della lotta mondiale ai cambiamenti climatici per la riduzione della emissione di gas serra e per la finanza verde. Nella medesima direzione vanno anche il Sendai Framework for Disaster Risk Reduction (2015-2030), adottato dagli Stati Membri delle Nazioni Unite nel 2015 durante la Conferenza Mondiale sulla riduzione del rischio di disastri e la New Urban Agenda (NUA), adottata alla Conferenza delle Nazioni Unite su Housing e sviluppo urbano sostenibile (Habitat III), a Quito in Equador nel 2016.

Nel campo della cooperazione allo sviluppo, all’interno del vasto spettro di progetti in ambito urbano, la Cooperazione italiana mostra un’attenzione particolare alle baraccopoli, ossia i bassifondi urbani, aree fortemente degradate ai margini dei nuclei urbani nelle quali approdano le fasce di popolazione più vulnerabili, maggiormente bisognose di aiuti. Nel settore urbano, la Cooperazione Italiana ha attivato negli anni numerose iniziative volte a favorire uno sviluppo sostenibile, attraverso la rigenerazione integrata di aree urbane, comprendente la realizzazione di abitazioni, l’erogazione di servizi sociali e infrastrutture, la creazione di opportunità di lavoro, la promozione di progetti sociali, la salvaguardia del patrimonio culturale e la protezione degli ecosistemi. Un focus particolare si sta dando allo sviluppo delle città cosiddette “secondarie”.

Città secondarie

Con il termine città secondarie si intendono comunemente le città di secondo o terzo livello rispetto a un sistema gerarchico di città definito in base alla popolazione, su scala nazionale, in cui le città primarie, metropoli o megalopoli, coincidono quasi sempre con le capitali, politiche o economiche.

Le città secondarie possono avere dimensioni variabili a seconda dei contesti: in Etiopia non superano i duecentomila abitanti, mentre in India o in Cina possono arrivare anche a più milioni. Di fatto, il ruolo di queste città non si basa sul valore assoluto della popolazione che le abita, ma sulle relazioni di dipendenza o di reciprocità che esse instaurano con gli altri nuclei territoriali.

Particolarmente problematico è il crescente squilibrio territoriale, creatosi in molti contesti, a causa della rapida urbanizzazione, tra poche città estremamente sovraffollate, in genere le capitali soprattutto dei paesi più poveri e il resto del territorio nazionale. Spesso le città minori e le aree rurali sono completamente sconnesse dalle città principali e prive di infrastrutture stradali e servizi adeguati. Questo forte divario ha come conseguenza un’incredibile pressione sulle città principali e mina la sicurezza ambientale, sociale, alimentare e sanitaria dei loro abitanti, a causa delle difficoltà di gestione urbana. Nelle città principali la grande dimensione e la densità abitativa troppo elevata portano ad un uso indiscriminato del suolo e delle risorse, ad una mobilità congestionata, ad una segregazione spaziale e all’accrescersi delle diseguaglianze sociali.

Con l’intento di alleggerire il peso delle città principali (in genere capitali) la Cooperazione italiana è orientata al potenziamento delle città cosiddette “secondarie” che per la loro minore dimensione si prestano ad accogliere con maggiore equilibrio le dinamiche urbane, sociali, ambientali ed economiche, garantendo anche un rapporto più integrato con la campagna e i sistemi di produzione alimentare. L’Italia ha una tradizione secolare di città secondarie, che costituiscono una solida rete territoriale e possono costituire esempi di buona governance per i Paesi Partner attraverso un costruttivo trasferimento delle molteplici conoscenze e competenze del settore pubblico e privato. In linea con le linee strategiche e di indirizzo della cooperazione italiana, l’Agenzia sta pertanto lavorando a incrementare i progetti di sviluppo urbano delle “città secondarie” nei Paesi Partner e a definire nuove metodologie settoriali.

Riqualificazione del Centro Storico di San Salvador

Principali convenzioni internazionali in materia ambientale con impatto sul territorio

Il Protocollo di Montreal è lo strumento operativo dell’UNEP, il Programma Ambientale delle Nazioni Unite, per l’attuazione della Convenzione di Vienna “a favore della protezione dell’ozono stratosferico”. Entrato in vigore nel gennaio 1989, ad oggi, è stato ratificato da 197 Paesi tra i quali  l’Italia (dicembre 1988).

Il Protocollo stabilisce i termini di scadenza entro cui le Parti firmatarie si impegnano a contenere i livelli di produzione e di consumo delle sostanze dannose per la fascia d’ozono stratosferico (halon, tetracloruro di carbonio, clorofluorocarburi, idroclorofluorocarburi, tricloroetano, metilcloroformio, bromuro di metile, bromoclorometano). Il Protocollo, inoltre, disciplina gli scambi commerciali, la comunicazione dei dati di monitoraggio, l’attività di ricerca, lo scambio di informazioni e l’assistenza tecnica ai Paesi in via di sviluppo.

Nel 1990, il Protocollo di Montreal ha istituito il Fondo Multilaterale Ozono per aiutare i Paesi in via di sviluppo a raggiungere i loro impegni di conformità rispetto all’eliminazione della produzione e del consumo di sostanze ozono lesive. Il Fondo finanzia progetti di investimento, assistenza tecnica, formazione, capacity building, trasferimento tecnologico e riconversione industriale.

Il 15 ottobre 2016 a Kigali (Ruanda), alla 28esima Riunione delle Parti, i 197 Paesi, Parti del Protocollo, hanno approvato un emendamento che sancisce l’eliminazione progressiva della produzione e dell’utilizzo degli idro clorofluorocarburi (HFC). L’uso di gas HFC era stato introdotto, a seguito dell’adozione del Protocollo di Montréal nel 1987, in sostituzione dei clorofluorocarburi, principali responsabili della distruzione dello strato di ozono. Successivamente è stato tuttavia constatato che gli HFC, pur non essendo sostanze ozono-lesive, sono potenti gas serra che possono avere un impatto sul cambiamento climatico migliaia di volte maggiore rispetto all’anidride carbonica. Grazie all’emendamento di Kigali, le Parti si sono impegnate a ridurre la produzione e il consumo di HFC di oltre l’80% nel corso dei prossimi 30 anni. Tale programma di riduzione dovrebbe impedire il rilascio in atmosfera di emissioni equivalenti a oltre 80 miliardi di tonnellate metriche di anidride carbonica entro il 2050, continuando al tempo stesso a proteggere lo strato di ozono. In questo modo il Protocollo di Montreal contribuirà alla lotta al cambiamento climatico in linea con l’Accordo di Parigi.

I nuovi obblighi adottati a Kigali sono già rispettati dagli Stati Membri attraverso l’attuazione del Regolamento (UE) n. 517/2014 (cosiddetto Regolamento F-gas) e del Regolamento (UE) di esecuzione n.1191/2014, salvo lievi interventi di adeguamento in via di adozione a livello comunitario.

L’Unione Europea ha ratificato l’emendamento il 26 settembre 2018.

Fonte: Il Protocollo di Montreal

È un Trattato internazionale, sotto l’egida del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente, pensato per ridurre i movimenti di rifiuti pericolosi tra i paesi e, in particolare, per impedire il trasferimento di rifiuti pericolosi dai paesi sviluppati verso i paesi in via di sviluppo. Non riguarda, invece, i rifiuti radioattivi. La convenzione ha anche lo scopo di ridurre al minimo il tasso e la tossicità dei rifiuti prodotti, di garantirne una gestione ecologicamente corretta, il più vicino possibile alla fonte di produzione, e di assistere i paesi meno sviluppati nella gestione ecologicamente corretta dei rifiuti pericolosi e di altro tipo che producono.

Il testo della Convenzione di Basilea è stato adottato il 22 marzo 1989 ed è entrato in vigore il 5 maggio 1992. La Convenzione è stata ratificata da 189 paesi, compresa l’Unione europea; gli Stati Uniti e Haiti l’hanno sottoscritta ma non ratificata.

La Convenzione costituisce l’accordo più completo in materia ambientale globale riguardante i rifiuti pericolosi e altri rifiuti. Essa punta a proteggere la salute umana e l’ambiente dagli effetti avversi risultanti dalla generazione, dai movimenti transfrontalieri (attraverso i confini) e dalla gestione di rifiuti pericolosi e altri rifiuti.

La Convenzione regola i movimenti transfrontalieri di rifiuti pericolosi e altri rifiuti e richiede alle parti di garantire la gestione e lo smaltimento di tali rifiuti con modalità sane dal punto di vista ambientale.

Le parti si impegnano altresì a:

  • ridurre al minimo le quantità trasportate;
  • trattare e smaltire i rifiuti il più vicino possibile al luogo in cui vengono generati.

Trattato internazionale, sotto l’egida del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente, pensato per ridurre i movimenti di rifiuti pericolosi tra i paesi e, in particolare, per impedire il trasferimento di rifiuti pericolosi dai paesi sviluppati verso i paesi in via di sviluppo. Non riguarda, invece, i rifiuti radioattivi. La convenzione ha anche lo scopo di ridurre al minimo il tasso e la tossicità dei rifiuti prodotti, di garantirne una gestione ecologicamente corretta, il più vicino possibile alla fonte di produzione, e di assistere i paesi meno sviluppati nella gestione ecologicamente corretta dei rifiuti pericolosi e di altro tipo che producono.

Il testo della Convenzione di Basilea è stato adottato il 22 marzo 1989 ed è entrato in vigore il 5 maggio 1992. La Convenzione è stata ratificata da 189 paesi, compresa l’Unione europea; gli Stati Uniti e Haiti l’hanno sottoscritta ma non ratificata.

La Convenzione costituisce l’accordo più completo in materia ambientale globale riguardante i rifiuti pericolosi e altri rifiuti. Essa punta a proteggere la salute umana e l’ambiente dagli effetti avversi risultanti dalla generazione, dai movimenti transfrontalieri (attraverso i confini) e dalla gestione di rifiuti pericolosi e altri rifiuti.

La Convenzione regola i movimenti transfrontalieri di rifiuti pericolosi e altri rifiuti e richiede alle parti di garantire la gestione e lo smaltimento di tali rifiuti con modalità sane dal punto di vista ambientale.

Le parti si impegnano altresì a:

  • ridurre al minimo le quantità trasportate;
  • trattare e smaltire i rifiuti il più vicino possibile al luogo in cui vengono generati;
  • prevenire o ridurre al minimo la generazione di rifiuti alla fonte.

Fonte: Convenzione di Basilea sul controllo dei movimenti transfrontalieri di rifiuti pericolosi e del loro smaltimento

La Convenzione di Stoccolma sugli inquinanti organici persistenti si prefigge di ridurre al minimo le emissioni globali di queste sostanze nell’ambiente.

Prevede in particolare i seguenti impegni:

  • Divieti e limitazioni di fabbricazione e di impiego per i prodotti commerciali (pesticidi e/o prodotti chimici industriali);
  • La produzione non intenzionale di alcune sostanze inquinanti, prodotte ed emesse, ad esempio,  durante i processi di combustione.

La Convenzione di Stoccolma stabilisce criteri e procedure in base ai quali altre sostanze possono essere inserite negli allegati della Convenzione. Le sostanze devono essere molto persistenti, soggette a bioaccumulazione in animali e piante ed essere trasportabili su lunghe distanze. Inoltre, devono avere effetti tossici dimostrati sulla salute umana o sull’ambiente.

I trasformatori e i condensatori contenenti PCB devono essere messi fuori esercizio entro il 2025 e smaltiti nel rispetto dell’ambiente.

Fonte: Affrontare i rischi posti dalle sostanze chimiche (convenzione di Stoccolma)

Link Utili

Ultimo aggiornamento: 09/07/2024, 10:51