Dal Sud Sudan all’Uganda in cerca di protezione: un viaggio oltre i confini

Una delegazione della sede Aics di Nairobi, in Kenya, è stata ad Adjumani, distretto nel nord dell’Uganda al confine con il Sud Sudan. Ha seguito il percorso che fanno i rifugiati che entrano nel Paese in cerca di protezione, a partire dal momento della registrazione subito dopo aver varcato il confine sino all’arrivo nei campi profughi. Dove l'Agenzia interviene a supporto delle comunità rifugiate ed ospitanti

Il confine

Per passare il confine tra Sud Sudan e Uganda dal distretto ugandese di Adjumani bisogna attraversare un ponte su un fiume completamente arido, affollato di camion, moto, animali, venditori di ogni cosa, militari armati e guardinghi, polvere. Partendo dalla parte ugandese, siamo riusciti a percorrerne solo metà; i militari sud sudanesi ci hanno poi rispedito indietro senza troppe cerimonie.

Ogni mese, centinaia di persone attraversano questo ponte in fuga dal Sud Sudan, paese ancora sconvolto da una guerra civile durata 5 anni, tensioni interne e da anni consecutivi di inondazioni record che hanno provocato una delle più gravi crisi umanitarie del continente, con circa 2 milioni di sfollati interni e 2,2 milioni in cerca di protezione verso i Paesi limitrofi.

Una volta scampati i severi controlli dei militari sul ponte, si arriva agli uffici di frontiera ugandesi. È difficile, persino per noi, non sentirsi sollevati dal notare l’enorme insegna rossa che campeggia sopra gli uffici: "Welcome to Uganda".

Il centro di prima registrazione 

A 300 metri dal ponte si trova il Centro di raccolta (Collection point) di Elegu. Qui le autorità ugandesi dell’Ufficio del primo ministro (Opm), entità responsabile per il sistema di accoglienza, insieme all''Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) e a una squadra medica registrano i profughi appena arrivati e svolgono i primi controlli sanitari, somministrando vaccini se necessario, incluso quello contro il Covid-19.

Francis Kirya dell’Opm ugandese ci dice che solo ad Elegu, uno dei punti di accesso alla frontiera tra Uganda e Sud Sudan, durante il mese di gennaio 2023 sono stati registrati 646 nuovi arrivi.

Mentre ci illustra i tesserini identificativi ed i braccialetti che vengono dati ai profughi per dar loro diritto a ricevere gli aiuti alimentari del World Food Programme (Wfp), Francis vede dietro le nostre spalle che nel Centro sta entrando una famiglia di sud sudanesi: camminano lentamente ma con decisione. Sono nove; sette bambini, la loro madre e suo fratello.

"Quanto tempo avete viaggiato per arrivare qui?", chiediamo loro, percependo il loro sfinimento nel torrido caldo equatoriale. "Un mese", dice l’unico ragazzo che parla inglese, "abbiamo preso un bus che attraversa tutto il Paese, non potevamo permetterci mezzi più veloci". Al Centro di Elegu, ogni membro della famiglia viene registrato su una piattaforma tramite impronte digitali. Questo sistema serve ad identificare i profughi in un database globale, dove vengono anche realizzati controlli di sicurezza da parte dell’intelligence.

In serata, spiega Francis, verranno accompagnati al Reception centre di Nyumanzi. Qui profughi appena registrati trascorreranno qualche giorno, prima di essere trasferiti in uno dei campi nei dintorni. Ad ogni famiglia viene assegnato un alloggio temporaneo; nel Reception centre ci sono sanitari comuni e si ricevono aiuti alimentari ogni giorno, coordinati da Wfp. All’interno del centro c’è anche un centro medico di prima emergenza e un piccolo parco giochi.

Vita nei campi

L’Uganda è il paese africano che accoglie il più alto numero di rifugiati: oltre 1,5 milioni secondo il censimento del 2021, di cui il 65,3% provenienti dal Sud Sudan. Le assegnazioni nei campi, ci spiega Francis, vengono effettuate in base alla disponibilità e facendo attenzione a non mescolare gruppi tribali in conflitto tra loro. Una volta nei campi, ai rifugiati vengono assegnati piccoli appezzamenti di terreno che possono essere utilizzati per realizzare attività agricole per il sostentamento.

Secondo i dati di Unhcr, solo nel Distretto di Adjumani a dicembre 2022 risultavano registrati nei 18 campi circa 280.000 tra richiedenti asilo e rifugiati, di cui l’86% donne e bambini. È proprio qui che si concentrano le attività dell’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (Aics) a sostegno della popolazione in diaspora e in fuga dal Sud Sudan e a beneficio delle comunità ospitanti.

"Attraverso le nostre Organizzazioni della società civile presenti sul territorio e in collaborazione con  le autorità locali, interveniamo con attività di formazione e di creazione di impresa per i giovani, sviluppando opportunità di guadagno e sostentamento spesso attraverso collaborazioni tra profughi sud sudanesi e ugandesi, senza tralasciare azioni che possano facilitare le condizioni per un futuro eventuale ritorno nel paese di provenienza per aiutarne la ricostruzione" spiega Giovanni Grandi, titolare della sede Aics di Nairobi. "In questo modo sosteniamo le politiche ugandesi che favoriscono l’integrazione dei profughi nel Paese e mitighiamo le possibili tensioni che possono nascere tra i due gruppi conviventi, e che derivano principalmente dall’uso congiunto delle limitate risorse naturali".

L’adozione di misure di prevenzione e mitigazione delle tensioni tra ugandesi e sud sudanesi è essenziale laddove, a causa del protrarsi delle condizioni di insicurezza, la popolazione rifugiata sud sudanese si sta progressivamente sedentarizzando in Uganda. Lo dimostra la storia di Grace, 35 anni, arrivata 31 anni fa come rifugiata e tutt’oggi residente nel campo di Elema, nel distretto di Adjumani. Qui Aics sta sostenendo la realizzazione di interventi infrastrutturali, tra cui l’installazione di punti di approvvigionamento d’acqua e il rinnovamento di spazi di aggregazione per la comunità. ‘Questi interventi hanno anche contribuito a ridurre i conflitti tra comunità rifugiate e comunità ospitanti’, dice, riferendosi in particolare al pozzo costruito da Africa Mission – Cooperazione e Sviluppo (C&S) proprio dietro le nostre spalle.

Grace oggi è leader della comunità, e lavora come traduttrice al centro sanitario di Elema, "perché spesso la barriera linguistica crea problemi di comprensione tra ugandesi e sud sudanesi", spiega. Grace ha completato l’educazione primaria e secondaria in Uganda. Ha cinque figli, ed è riuscita a costruire la propria casetta all’interno del campo. "Il sistema di accoglienza ugandese funziona, e riesce a far sentire i rifugiati a proprio agio. La mia casa, però, rimane in Sud Sudan e sogno un giorno di poter tornare, se mai ci sarà pace", confida mentre guarda lontano.

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Aics in Uganda interviene con un'iniziativa di emergenza volta a promuovere l'integrazione delle popolazioni sud sudanesi sfollate, ritornanti e rifugiate. Il progetto interviene nei campi rifugiati del distretto di Adjumani con la realizzazione di centri di aggregazione per giovani e donne e la costruzione di nuovi sistemi di approvvigionamento acqua. È prevista la promozione di attività agricole, di sostegno all’allevamento e al commercio per migliorare il reddito delle famiglie rifugiate, e la realizzazione di attività per promuovere l'integrazione con le comunità ospitanti per sostenere una pacifica convivenza. L’iniziativa, iniziata a settembre del 2022 e della durata prevista di 20 mesi, è realizzata da Africa Mission – Cooperazione e Sviluppo in consorzio con Jesuit Refugee Service.

L'ingresso del Centro di Raccolta di Elegu, Nord Uganda. ©M. Watsemba/Aics Nairobi

L'ingresso del Centro di Raccolta di Elegu, Nord Uganda. ©M. Watsemba/Aics Nairobi

Francis Kirya dell'Opm spiega come funziona il processo di registrazione nel Centro di Elegu ©M. Watsemba/AicsNairobi

Francis Kirya dell'Opm spiega come funziona il processo di registrazione nel Centro di Elegu ©M. Watsemba/Aics Nairobi

Uno dei centri di aggregazione per le donne rinnovati da Aics e C&S presso il campo di Nyumanzi, Distretto di Adjumani. ©M. Watsemba/Aics Nairobi

Uno dei centri di aggregazione per le donne rinnovati da Aics e C&S presso il campo di Nyumanzi, Distretto di Adjumani. ©M. Watsemba/Aics Nairobi

I rifugiati al Reception Centre in attesa di ricevere il pranzo distribuito da WFP. ©M. Watsemba/Aics Nairobi

I rifugiati al Reception Centre in attesa di ricevere il pranzo distribuito da WFP. ©M. Watsemba/Aics Nairobi

Grace, 35 anni, vive nel campo profughi di Elema da 31 anni. ©M. Watsemba/AicsNairobi

Grace, 35 anni, vive nel campo profughi di Elema da 31 anni. ©M. Watsemba/Aics Nairobi

Uganda, aperto un nuovo plesso oculistico chirurgico finanziato dall’AICS

È stato inaugurato oggi a Kitgum, nel nord dell’Uganda, il nuovo plesso oculistico chirurgico dell’Ospedale St. Joseph, costruito grazie al sostegno dell’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (Aics).

Il reparto ha l’obiettivo di migliorare l’accesso e la qualità dei servizi oftalmici per 10.200 persone ogni anno, con particolare attenzione alle categorie più vulnerabili come persone con disabilità, donne e bambini, che vivono anche nelle comunità più remote.

Il nuovo plesso vede la luce dopo tre anni di lavori grazie a un ampio progetto di cooperazione internazionale, di cui è capofila Cbm Italia – organizzazione umanitaria impegnata nella prevenzione e cura delle disabilità visive nei Paesi del Sud del mondo – in accordo con il ministero della Salute ugandese, in collaborazione con la Osc Medici con l’Africa Cuamm e i governi distrettuali di Kitgum, Arua e Terego.

L’inaugurazione è avvenuta alla presenza del direttore di Cbm Italia Massimo Maggio, di monsignor John Baptist Odama, arcivescovo di Gulu, della ministra della Salute ugandese Jane Ruth Aceng, della direttrice medica del S. Joseph Hospital Pamela Atim e di Jackie Kwesiga, country director di Cbm per l’Uganda.

In Uganda sono 3 milioni le persone con problemi di vista, ma al momento in tutto il Paese è presente un oftalmologo ogni milione di persone. Patologie come cataratta, errori refrattivi, tracoma, traumi e glaucoma portano alla cecità poiché non vengono curate a causa della mancanza di mezzi e servizi oftalmici adeguati, soprattutto nelle zone più remote. Il 75% dei casi di cecità sono tuttavia evitabili e curabili secondo l’International Agency for the Prevention of Blindness (Iapb).

Il nuovo plesso prevede una nuova sala operatoria che rende il centro oculistico capace di erogare cure diagnostiche, trattamenti specialistici e chirurgie. A questo si aggiunge il rinnovamento della sala per la degenza dei pazienti.

Lo stesso progetto ha permesso inoltre la ristrutturazione e l’equipaggiamento di altri quattro centri sanitari, oltre all’organizzazione di cliniche oculistiche chirurgiche e non chirurgiche mobili nelle comunità lontane e nei campi profughi.

Massimo Maggio, Jackie Kwesiga e John Baptist Odama tagliano il nastro. © CBM Italia

John Baptist Odama, Massimo Maggio, Jackie Kwesiga e il rappresentante del ministero della Salute tagliano il nastro. © CBM Italia

La prima prima operazione oculistica realizzata nel nuovo reparto: operazione di cataratta su un paziente di 53 anni. © CBM Italia

La prima prima operazione oculistica realizzata nel nuovo reparto: operazione di cataratta su un paziente di 53 anni. © CBM Italia