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Medio Oriente, i diritti umani sotto le macerie

Guerre, regimi autoritari, la furia jihadista. E una società civile che non si arrende. La “fotografia” di Amnesty e quella Dichiarazione rimasta sulla carta.

Guerre, repressione, opposizione imbavagliata o incarcerata. I diritti umani non albergano in Medio Oriente. Il Rapporto annuale “Rights Today” di Amnesty International fotografa una realtà inquietante, pressoché generalizzata. Nell’Egitto del presidente Abdel Fattah al-Sisi, le autorità hanno continuato a limitare il lavoro dei difensori dei diritti umani con una determinazione mai riscontrata prima, chiudendo le Ong o congelando i loro beni; hanno inoltre applicato una nuova legge draconiana che ha conferito loro ampi poteri di sciogliere le Ong e fissato a cinque anni di reclusione la pena prevista per la pubblicazione di ricerche senza il permesso del governo.

Le autorità egiziane hanno anche condannato 15 giornalisti a pene carcerarie per imputazioni che si riferivano unicamente ai loro articoli, compresa la pubblicazione di quelle che le autorità definivano “informazioni false”; hanno inoltre bloccato più di 400 siti web, compresi quelli di quotidiani indipendenti e organizzazioni per i diritti umani.

Nel frattempo, le forze di sicurezza hanno arrestato centinaia di persone sulla base della loro appartenenza, reale o percepita, ai Fratelli musulmani. Per punire i dissidenti politici, le autorità hanno fatto ricorso a prolungati periodi di detenzione cautelare, spesso anche di oltre due anni, confinato i detenuti in isolamento per lunghi periodi o a tempo indeterminato e sottoposto molti di quelli che avevano rilasciato a periodi di libertà vigilata, in cui sono stati costretti a trascorrere anche 12 ore al giorno in un commissariato di polizia, una misura di privazione arbitraria della libertà.
In Arabia Saudita, a giugno, Mohammed bin Salman è stato nominato per il ruolo di principe ereditario, nel quadro di una più ampia riorganizzazione della scena politica. Nei mesi successivi, le autorità hanno intensificato il loro giro di vite sulla libertà d’espressione e a settembre, nell’arco di una sola settimana, hanno arrestato almeno 20 eminenti figure religiose, scrittori, giornalisti, accademici e attivisti. Hanno anche incriminato i difensori dei diritti umani, con accuse relative al loro attivismo pacifico, facendoli processare dalla Corte penale specializzata, un tribunale istituito appositamente per giudicare reati in materia di terrorismo. A fine anno, nonostante l’immagine che il palazzo intendeva dare di un Paese divenuto più tollerante, la maggioranza dei difensori dei diritti umani sauditi erano o in prigione o imputati in processi gravemente iniqui. Una repressione brutale che ha come simbolo, tragico, il giornalista e dissidente saudita Jamal Khashoggi assassinato il 2 ottobre all’interno del consolato saudita di Istanbul. In altre parti della regione, la difesa dei diritti umani e le denunce dei giornalisti, oltre che il dissenso verso le istituzioni, hanno portato all’avvio di azioni penali, a imprigionamenti e, in alcuni casi, a campagne denigratorie orchestrate dal governo o dai suoi sostenitori.

In Iran, le autorità hanno incarcerato decine di persone che avevano espresso pacificamente opinioni critiche, tra cui attivisti per i diritti delle donne e delle minoranze, ambientalisti, sindacalisti, avvocati e altri che cercavano di ottenere verità, giustizia e riparazione per le esecuzioni di massa avvenute nel corso degli anni Ottanta. In Bahrein, il governo ha arbitrariamente detenuto difensori dei diritti umani e persone che lo avevano criticato e ha sottoposto altri a divieti di viaggio o revocato loro la nazionalità, ha sciolto il quotidiano indipendente al-Wasat e il partito politico d’opposizione Waad, ha mantenuto la messa al bando delle manifestazioni nella capitale Manama ed è ricorso all’uso non necessario ed eccessivo della forza per disperdere le manifestazioni in varie località del Paese.

Nel Marocco e Sahara Occidentale, le autorità hanno perseguito e incarcerato molti giornalisti, blogger e attivisti che avevano criticato le autorità o riportato notizie riguardanti violazioni dei diritti umani, corruzione o proteste popolari, come quelle che si sono svolte nella regione settentrionale del Rif, dove le forze di sicurezza hanno effettuato arresti di massa di manifestanti per lo più pacifici, compresi minori, e hanno fatto un uso eccessivo o non necessario della forza. Le autorità kuwaitiane hanno incarcerato diverse persone critiche nei confronti del governo e attivisti online, applicando normative che criminalizzavano i commenti ritenuti offensivi nei confronti dell’emiro o potenzialmente dannosi alle relazioni con gli stati limitrofi.

La società civile, tuttavia, si è impegnata notevolmente per arginare l’ondata di misure che tentavano di limitare la libertà d’espressione. In Tunisia, per esempio, gli attivisti sono riusciti a rallentare l’iter di approvazione di una nuova proposta di legge che potrebbe contribuire a rafforzare l’impunità delle forze di sicurezza, criminalizzando le critiche all’operato della polizia e garantendo agli agenti l’immunità giudiziaria per l’eventuale uso eccessivo o letale della forza. In Palestina, le autorità hanno consentito di emendare la legge sui reati informatici in seguito alle enormi pressioni ricevute dalla società civile. La violenza ha anche il marchio nero dell’’Isis. Le Nazioni Unite hanno documentato a gennaio che all’incirca 2.000 yazidi, donne e bambini, erano ancora prigionieri dell’Isis in Iraq e in Siria. Questi erano stati ridotti in schiavitù e regolarmente sottoposti a stupri, percosse e altre forme di tortura.

In Egitto, l’Isis ha rivendicato la responsabilità degli attentati dinamitardi compiuti ad aprile contro due chiese, costati la vita ad almeno 44 persone e, a novembre, militanti non identificati hanno fatto esplodere una bomba e aperto il fuoco contro i fedeli in una moschea nel nord del Sinai durante le preghiere del venerdì, uccidendo oltre 300 fedeli musulmani sufi, nell’attacco più sanguinoso compiuto da un gruppo armato in Egitto dal 2011. Iran, Iraq e Arabia Saudita sono rimasti ai primi posti nel mondo per numero di condanne a morte, effettuando centinaia di esecuzioni, in molti casi comminate al termine di processi iniqui. In Iran, Amnesty International ha potuto ottenere conferma dell’esecuzione di quattro minori di 18 anni all’epoca del reato ma diverse esecuzioni di condannati minorenni sono state rinviate all’ultimo minuto in seguito alla mobilitazione dell’opinione pubblica.

Le autorità iraniane hanno continuato a definire “antislamiche” le campagne pacifiche contro la pena di morte e hanno sottoposto a vessazioni e carcerazioni attivisti contro la pena capitale. In Arabia Saudita, i tribunali hanno emesso nuove condanne a morte per reati in materia di droga o altri comportamenti che in base al diritto interna­zionale non dovrebbero comportare l’imposizione della pena capitale, come ad esempio “stregoneria” e “adulterio”. In Iraq, la pena di morte ha continuato a essere applicata come strumento di vendetta, in risposta all’indignazione suscitata nell’opinione pubblica dagli attacchi rivendicati dall’Isis. Bahrein e Kuwait hanno ripreso le esecuzioni a gennaio, le prime rispettivamente dal 2010 e dal 2013; le condanne a morte erano state emesse per il reato di omicidio. Anche Egitto, Giordania, Libia e l’amministrazione de facto di Hamas nella Striscia di Gaza hanno effettuato esecuzioni.

A eccezione di Israele e Oman, tutti gli altri Paesi della regione hanno proseguito la ormai consolidata prassi di emettere condanne a morte ma di non applicarle. Alimentato dal commercio internazionale di armi, il conflitto nella regione ha continuato ad affliggere la vita di milioni di persone, in particolare nello Yemen, in Libia, Siria e Iraq. In ciascuno di questi conflitti, le molteplici parti in campo hanno commesso crimini di guerra e altre gravi violazioni del diritto internazionale, compresi attacchi indiscriminati che hanno provocato morti e feriti tra i civili e attacchi deliberati contro la popolazione e infrastrutture civili. In Siria e nello Yemen, il governo e le sue forze alleate hanno utilizzato armi vietate dal diritto internazionale come munizioni a grappolo e, nel caso della Siria, armi chimiche.

Più di mezzo milione di morti: è il nuovo bilancio, fornito il 10 dicembre dall’Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria (Ondus), delle violenze in Siria scoppiate nel marzo del 2011 e ancora in corso nel quadro di una guerra interna trasformatasi presto in un conflitto regionale in cui sono coinvolti eserciti e milizie di diversi paesi. L’Ondus da undici anni monitora le violazioni in Siria e si avvale di una fitta rete di fonti sul terreno. L’Organizzazione ha sede in Gran Bretagna ed è stata fondata da un dissidente siriano in esilio, ma in questi anni è stata più volte citata anche da media vicini al governo di Damasco quando denunciava crimini commessi da oppositori, forze statunitensi o gruppi radicali. L’Ondus ha contato in tutto l’uccisione di 560mila persone. Ma ha potuto documentare con certezza la morte di 367.965 persone. Delle 560mila contate, 111.330 sono civili, di cui 20.819 minori e 13.084 donne.

Tra gli armati, si contano 65.048 membri dell’esercito regolare siriani e 50.296 miliziani lealisti siriani. Tra le formazioni radicali, 65.108 sono gli uccisi nelle file dell’ala siriana di al Qaeda e dell’Isis. Nei ranghi dei gruppi armati delle opposizioni, 63.561 uccisi, e in questa cifra sono inclusi anche i miliziani curdo-siriani. Tra le vittime, ci sono anche 1.675 miliziani Hezbollah, il movimento sciita libanese alleato di Damasco e dell’Iran. Degli oltre 500mila uccisi, 104mila risultano morti sotto tortura nelle carceri governative siriane.

Tra il 2011 e il 2017, le persone sfollate internamente al territorio siriano erano 6,5 milioni. Le persone fuggite durante l’anno dalla Siria erano più di mezzo milione, una cifra che ha portato il numero complessivo di rifugiati siriani ad almeno cinque milioni. Il Medio Oriente e l’Africa del Nord sono “la peggiore regione al mondo in materia di diritti umani”, rimarca Sarah Leah Whitson, direttrice della divisione locale di Human Rights Watch (Hrw). Whitson sottolinea alcune “azioni positive” intrapresi da parte di alcuni Paesi della regione: il progetto di riforma dell’eredità in Tunisia, visto come “un passo decisivo e raro verso l’uguaglianza di genere”; l’attuazione di una nuova legge sulla tortura in Libano; quella sull’asilo dei rifugiati, adottata dal Qatar nel settembre 2018. Tuttavia, secondo la dirigente di Hrw “se guardiamo la regione nel suo complesso, il rispetto dei diritti umani è in uno stato di crisi, segnato da un lato da guerre catastrofiche in Siria, nello Yemen, da un conflitto che continua in Libia e da violenze perpetue in Iraq, a Gaza e nel Sinai”. Al momento, 13 Paesi arabi sono in guerra o combattono attraverso una coalizione militare. Il 10 dicembre 1948, 70 anni fa, a Parigi, l’Assemblea delle Nazioni Unite adottò la Dichiarazione universale dei Diritti dell’Uomo come “ideale comune da raggiungersi da tutti i popoli e tutte le Nazioni”. Settant’anni dopo, quell’”ideale comune” è sepolto tra le macerie di un Medio Oriente in fiamme.

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