Ultimi articoli

  /  Articoli   /  Pianeta   /  Oceano, la nuova frontiera della cooperazione allo sviluppo
Un fondale marino
Crediti: Igor d’India

Oceano, la nuova frontiera della cooperazione allo sviluppo

Colloquio con Mariasole Bianco, biologa marina e divulgatrice scientifica e fondatrice della onlus, WorldRise, da alcuni anni molto attiva sui temi di tutela dei mari

“Il nostro pianeta andrebbe chiamato Oceano, poiché i mari occupano il 71% della superficie del pianeta. Sebbene plurimi si può dire esista un solo Oceano, che ospita l’80% delle specie viventi“. Così esordisce Mariasole Bianco, biologa marina e divulgatrice scientifica e fondatrice della onlus, WorldRise, da alcuni anni molto attiva sui temi di tutela dei mari dato il ruolo chiave – e dimenticato – che giocano gli ecosistemi marini sulla vita terrestre. “Basta pensare al ruolo fondamentale nel produrre ossigeno – più del 50% viene dall’oceano –, alla capacità di assorbire anidride carbonica, dato che cattura un terzo delle emissioni in atmosfera, alla funzione di termostato globale per regolare le temperature. L’oceano è un meccanismo chiave della vita terrestre“.

Eppure non si sa molto del ruolo che riveste

Conosciamo pochissimo degli oceani, ad oggi abbiamo mappato circa il 20% dei fondali marini. Questa percentuale è cresciuta molto negli ultimi anni. Fino a qualche anno fa eravamo al 5%. Abbiamo delle mappe più dettagliate della superficie di Marte o della Luna. Esso può rivelarci scoperte sconvolgenti. Si pensava, ad esempio, che tutta la vita dipendesse dal sole. Ma nelle sorgenti idrotermali sottomarine sono stati scoperti organismi che compiono la   chemiosintesi, cioè producono energia da sostanze chimiche che fuoriescono dal manto terrestre.

La biologa marina Mariasole Bianco

La biologa marina Mariasole Bianco

La ricerca sugli oceani ha anche impatti rilevanti sulla nostra societa?

Si è scoperto ad esempio che questi organismi che vivono in prossimità delle sorgenti idrotermali hanno sviluppato degli enzimi che sono utilizzabili per sviluppare test diagnostici per Coronavirus, Sars e Aids. Aumentare la ricerca sugli oceani può avere un valore inestimabile sotto diversi punti di vista.

L’Oceano svolge un ruolo fondamentale per la stabilità climatica. Destabilizzarlo può avere conseguenze catastrofiche?

L’oceano svolge un ruolo fondamentale nella mitigazione del cambiamento climatico. La misura è data dal fatto che l’Oceano ha assorbito circa il 93% del calore in eccesso, trattenuto in atmosfera dai gas serra. Se l’oceano non ci avesse fornito questo servizio, la temperatura della Terra sarebbe in media di 36°C superiore alle temperature attuali. Ma nonostante il ruolo chiave nella bilancia climatica la parola oceano compare nei testi dei negoziati internazionali sul clima solo con l’Accordo di Parigi, a Cop21, nel 2015 e limitatamente al prologo. Un ruolo ignorato per tantissimo tempo, soprattutto dalla diplomazia e dal mondo economico.

I servizi che l’oceano offre però sono in pericolo, cosa state riscontrando?

Si sta verificando un aumento della temperatura nella colonna d’acqua fino a oltre 2.000 metri di profondità. Pensate all’energia che ci vuole per cambiare la temperatura di una massa d’acqua vasta come quella che occupa il 71% del nostro pianeta, con una profondità media di 3.800 metri. Questa mutazione ha un impatto sulle forme di vita, ad esempio sulle barriere coralline, un ecosistema che occupa meno dell’1% dei fondali marini, ma supporta l’esistenza del 25% delle specie marine. Quindi una specie su quattro scomparirebbe se scomparissero le barriere coralline e ad oggi abbiamo già perso più del 50% del totale dei reef.

Altra conseguenza dell’aumento delle temperature è l’acidificazione. L’Oceano assorbe anidride carbonica, ma se è troppa questi ioni di carbonato diventano acido carbonico. Infine c’è il tema dell’ossigenazione, che vede una concentrazione dell’ossigeno nelle acque superficiali e un aumento delle zone anossiche. Tutti cambiamenti che non si vedevano con questa magnitudine da 14 milioni di anni e che hanno una velocità mai registrata.

Questo ha un impatto su numerose aree del pianeta, specie quelle meno sviluppate?

C’è un tema di giustizia ambientale, ad esempio legato all’impatto dell’innalzamento del mare sulle popolazioni in via di sviluppo. Oppure sulle conseguenze dell’inquinamento da plastica o altre sostanze tossiche sulla sicurezza alimentare.

Quanto impatta sulla sicurezza alimentare la mancata cura dei mari?

La sovrapesca (overfishing, nda), che si unisce poi alla pesca illegale, non regolamentata e non regolata fa si che peschiamo più della capacità del pesce di riprodursi. Siamo entrati in un circolo vizioso e la Fao ci dice che se andiamo avanti così nel 2050 assisteremmo a un collasso della pesca commerciale perché semplicemente non ci saranno più le risorse per soddisfare la domanda. Oggi si usano reti che sono grandi come quattro campi da calcio, che pescano in una giornata quanto raccoglie una piccola comunità di pescatori artigianali che però non impatti ambientali estremamente ridotti. La sovrapesca ha delle conseguenze sulla biodiversità marina, ma anche a livello sociale, perché impatta soprattutto le comunità meno sviluppate. Dietro ci sono aziende di paesi industrializzati, che comprano licenze e quote di pesca dai paesi meno ricchi, impattando così intere comunità costiere.

Vista subacquea. Crediti: Igor D'India

Vista subacquea. Crediti: Igor D’India

A fine agosto è fallito il negoziato per la tutela dell’alto mare, le zone al di fuori dalle acque territoriali. Che impatti avrà ciò?

Gli Stati membri dell’Onu non sono riusciti a finalizzare il Trattato per la protezione dell’alto mare, con diverse importanti controversie che restano ancora aperte e bloccano un accordo cruciale per la salvaguardia degli oceani. Dopo oltre 15 anni di discussioni informali e poi formali per produrre un testo vincolante volto a salvaguardare questa vasta area che copre quasi la metà del pianeta, la quinta sessione (ad agosto 2022, nda) avrebbe dovuto essere l’ultima, come già la quarta a marzo. Speriamo intanto che alla Cop15 sulla biodiversità (Cbd) si possa formalizzare l’obiettivo di proteggere almeno il 30% dell’Oceano entro il 2030. Questo dato deriva da studi scientifici molto accurati che definiscono la quota di aree tutelate se vogliamo salvaguardare funzionalità e produttività dell’oceano e terrestri. Ma per raggiungere questo obiettivo non bastano le aree nazionali serve anche tutelare l’alto mare che al rimane terra di nessuno, quindi non regolamentato né per la pesca né per l’estrazione.

Quali sono state le criticità di questo fallimento sul Trattato per l’alto mare?

Non è stato semplice definire chi è responsabile ad esempio per l’istituzione di aree protette in alto mare. Nel negoziato si è stabilito che sarà la Conferenza delle parti dell’accordo ad avere questa responsabilità e già questo è stato un grosso passo avanti. Un altro passo avanti è stato quello di raggiungere un’intesa di principio (anche se non formalizzata) relativa alla compensazione dei Paesi in via di sviluppo per l’utilizzo delle risorse genetiche marine da parte dei Paesi industrializzati, un aspetto di fondamentale importanza soprattutto per gli Stati del Pacifico e dell’Africa. Ma a bloccare l’accordo è stata la Cina, che adducendo motivi di procedura si è opposta all’accordo per difendere i propri interessi in alto mare in un contesto geopolitico internazionale che non è certo favorevole al multilateralismo. Il trattato è diventato una vittima di uno scenario globale.

Si tende a parlare di clima e si parla meno di biodiversità

È vero, ma per entrambe le sfide serve ridurre la frammentazione geopolitica, non si può agire se non ci sono i presupposti per poter lavorare una comunità globale e combattere uniti le sfide globali. La pandemia ce lo ha dimostrato.

Su quali progetti dovrebbe insistere la cooperazione?

Sicuramente nel campo della protezione della natura. Essa ha un immenso potere rigenerativo. Bisogna avere gli spazi però, dunque è prioritaria l’istituzione di aree protette terrestri e marine. La conservazione ha un impatto a livello economico e sociale, cioè crea un nuovo modello di sviluppo. Le risorse per le aree protette potrebbero essere prese dai sussidi alle fossili. Abbiamo l’esempio dell’Area Marina protetta di Port-Cros, in Francia, in cui sono stati fatti degli studi proprio sui benefici economici delle aree protette. È stato scoperto che per ogni euro si investe per l’area marina protetta, questo ne genera 92. Offrono servizi di base ma creano anche opportunità per il turismo e nuovi servizi. Quello sulla tutela è sicuramente uno degli investimenti migliori che noi possiamo fare per garantire un futuro di sviluppo alle popolazioni locali.

Raccontaci un progetto di WorldRise

La campagna 30×30, che vede più di 40 associazioni su tutto il territorio italiano per facilitare la protezione di almeno il 30% dello spazio marittimo italiano entro il 2030 e per spingere l’Italia a giocare un ruolo fondamentale nel contesto internazionale, per esempio per raggiungere un accordo ambizioso per la protezione della biodiversità nell’alto mare o in generale all’interno della Convenzione sulla diversità biologica (Cbd). Parallelamente stiamo facendo un percorso per identificare quali sono i gap legislativi che non consentono una gestione efficiente e individuare strategie per la creazione di competenze per i manager delle aree marine protette. Infine con il progetto Seaty vogliamo creare aree di conservazione marina locale che diventino una piattaforma per conoscere il mare e imparare a prendersene cura. Perché l’educazione è alla base di ogni trasformazione.

Il progetto Seaty. Crediti: Igor d'India

Il progetto Seaty. Crediti: Igor d’India

 

Biografia
Emanuele Bompan
Giornalista ambientale e geografo. Si occupa di economia circolare, cambiamenti climatici, green-economy, politica americana. E’ Direttore della rivista Materia Rinnovabile, collabora con testate come La Stampa, Nuova Ecologia e Oltremare. Ha scritto l’Atlante geopolitico dell’Acqua (2019), Water Grabbing – le guerre nascoste per l’acqua nel XXI secolo (2018) “Che cosa è l’economia circolare” (2017). Ha vinto per quattro volte l’European Journalism Center IDR Grant, una volta la Middlebury Environmental Journalism Fellowship, una volta la Google DNI Initiative ed è stato nominato Giornalista per la Terra nel 2015.

You don't have permission to register