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“Il sesso inutile” ieri ed oggi: a più di 50 anni dal reportage di Oriana Fallaci, è cambiato davvero qualcosa?

Non lo voleva scrivere quel reportage Oriana Fallaci. Non voleva occuparsi di donne. Non voleva essere la scrittrice donna che scrive di donne o dei problemi che riguardano le donne. Si sentiva ridicola, a disagio. Perché le donne non sono (non dovrebbero essere) una storia a parte, una sezione di un giornale, una “fauna speciale”, un gruppo da proteggere, un colore con il quale essere identificate. Sono esseri viventi le donne, come gli uomini, capaci di interagire e di uscire da ghetti che spesso sono proprio loro a volere e creare. Matricole più brillanti negli studi rispetto ai colleghi maschi e che, per questo e molto altro, non dovrebbero aver bisogno di quelle quote rosa che spesso sono una forzatura, un diritto preteso e, quindi, negato.

Non lo voleva scrivere quel reportage la Fallaci. Poi, un giorno, sentendo le parole infelici di una amica in carriera, con un mestiere in cui riusciva meglio degli uomini, ma che avrebbe preferito nascere in un paese dove le donne non contano nulla, cambiò idea: “Mi venne in mente che i problemi fondamentali degli uomini nascono da questioni economiche, razziali, sociali, ma i problemi fondamentali delle donne nascono anche e soprattutto da questo: il fatto di essere donne”.

“Nel paesi mussulmani nessun uomo ha mai nascosto la faccia sotto un lenzuolo per uscir nelle strade – scriveva la Fallaci -. In Cina nessun uomo ha mai avuto i piedi fasciati e ridotti a sette centimetri di muscoli atrofizzati e di ossa rotte. In Giappone nessun uomo è mai stato lapidato perché la moglie ha scoperto che non era vergine”. Così è cominciato questo suo viaggio dall’India al Pakistan, all’Indonesia alla Cina fino a New York. Un viaggio che l’ha portata a scrivere “Il sesso inutile”, un reportage memorabile sulle donne da lei incontrate, spose bambine, donne con i piedi fasciati, geishe, dottoresse, matriarche, donne in carriera, madri, figlie, schiave.

Era il 1961, un’altra era, precedente a quel ’68 che tanto ha dato e tanto ha tolto alle donne che, pur di farsi sentire, hanno urlato, usando toni che sono andati oltre la loro (nostra) natura, per dimostrare che possiamo essere come loro, i maschi, ma spesso dimenticando il dono ricevuto alla nascita: essere donne. Non una nota di demerito, non una identità di cui vergognarsi, non uno status da far dimenticare, ma un fiore da mostrare come vanto, un caleidoscopio di emozioni, con tutte le contraddizioni che una natura complessa come quella femminile può avere.

Eppure, a 50 anni di distanza, in quel lavoro della Fallaci non troviamo temi scaduti, questioni risolte, ma un mondo nel quale ancora oggi spesso siamo imprigionati.

LE SPOSE BAMBINE

È un pacco la sposa bambina di Karachi che incontra la giornalista fiorentina: un pacco avvolto nel suo abito di sposa. Ha 14 anni e piange. Sta per andare verso il suo futuro, un marito che non ha mai visto. E piange, ma le sue non sono lacrime simili alle nostre, non è infelice. È quello il suo destino, da prima della sua nascita e lei stessa non saprebbe volere altro: non saprebbe trovare un uomo, non riuscirebbe ad immaginare di avere più storie, di scegliere con chi stare, sarebbe una umiliazione imbellettarsi per convincere un maschio a sceglierla come sposa. La parola amore non è compresa nel suo vocabolario, ride quando sente parlare di sentimenti. Nei suoi occhi una sola preoccupazione: non farsi ripudiare. E per evitarlo un solo modo: dare molti figli allo sposo. Perché “a che serve una donna giovane e bella se non partorisce?”.

È un pacco la sposa bambina che vive “dietro la nebbia fitta di un velo e più che un velo è un lenzuolo il quale la copre dalla testa ai piedi come un sudario. Un lenzuolo che ha due buchi all’altezza degli occhi oppure un fitto graticcio alto due centimetri e largo sei: attraverso quei buchi o quel graticcio guarda il cielo e la gente come attraverso le sbarre di una prigione”. Una prigione che si estende dall’Oceano Atlantico all’Oceano Indiano. Ieri come oggi.

Ogni anno nel mondo 15 milioni di ragazze si sposano prima di aver compiuto la maggiore età, 37.000 ogni giorno. Una ogni 2,5 secondi. I paesi maggiormente interessati sono il Niger, la Repubblica Centro Africana, il Mali. In Yemen, secondo l’Unicef, i matrimoni infantili riguardano il 14% delle yemenite date in dote prima dei 15 anni. Come Rawan, morta per lesioni interne dopo la prima notte di nozze, lei bambina di 8 anni sposa di un uomo di 40.

Ma non c’è bisogno di andare molto lontano da casa nostra. Secondo una indagine del 2017 dell’associazione 21 Luglio “Non ho l’età. I matrimoni precoci nelle baraccopoli della città di Roma”, nelle baraccopoli romane le unioni precoci superano il record mondiale del Niger. E tra loro ci sono molte spose bambine: una su 4 ha dai 12 ai 15 anni. Un matrimonio, in questo contesto, che rappresenta uno spartiacque tra l’infanzia e l’età adulta, ma anche una necessità sociale: c’è chi si sposa per paura di rimanere sola, chi perché cosa potrebbe dire la gente dopo anni di fidanzamento e la probabile perdita della verginità? Matrimoni condizionati, come capita ancora oggi in alcune famiglie di ‘ndrangheta della Locride, nelle quali una delle parole più usate dalle ragazze è “ormai”: “Ormai ho 17 anni”, “Ormai ho 20 anni e un figlio”. Ormai, perché la vita di una donna è spesso un destino ineluttabile a cui è impossibile ribellarsi, non solo per convinzione del contesto sociale nel quale si vive, ma per una idea ‘ormai’ introiettata da parte delle stesse ragazze che, sin dalla nascita, non fanno altro che succhiare la convinzione che una donna serve ‘solo’ per i matrimoni o per mettere al mondo figli. Perché “a che serve una donna giovane e bella se non partorisce?”. Soprattutto dal momento che la nascita di una fimmina in certi contesti è vissuta come una disgrazia. “Disgrazie” che per prime, insieme agli uomini figli di altre “disgrazie”, guardano al mondo femminile emancipato come un male non necessario e incomprensibile.

IN VIAGGIO DA EST A OVEST

Il viaggio della Fallaci continua: la troviamo in India tra le donne emancipate e quelle che “tirano pedate alle vacche”, tra i poveri e i medici che controllano le nascite, ieri come oggi, perché la sterilizzazione è una pratica che continua per quel maledetto tasso di fecondità di 2,4 figli per donna! E poi la troviamo a Kyoto e in Cina dove si lottava e ancora si lotta per l’emancipazione, una battaglia ancora lunga basti pensare a quella campagna sul “ticchettio degli orologi biologici e sociali” che considera “avanzi” quelle donne che a 25 anni non hanno avuto ancora figli. Ma la Fallaci non guarda solo al mondo orientale, guarda anche all’Occidente e a quella New York in cui le donne non sono più donne ma “un uomo con molti vantaggi”, in carriera e sole.

NON SAREMO MAI PIÙ COME PRIMA

E mentre noi occidentali proviamo a trovare delle risposte, nuove rivoluzioni stanno per prendere forma e hanno il volto delle donne migranti: “La migrazione è un’esperienza che determina dei grandi cambiamenti rispetto alle consuetudini – mi ha raccontato l’ex direttore Aics Laura Frigenti – Ho incontrato donne della Siria che hanno detto: “Anche se torniamo lì, non saremo mai più come prima”. Sono donne che hanno avuto la saggezza di mettere a frutto la parte positiva di questa esperienza, trasformandola in un’occasione di emancipazione. Ora sono loro che lavorano nei campi, sono loro che hanno una voce sull’educazione delle figlie, sono loro che vogliono che le figlie studino. In questo disastro che è stata per molti la migrazione, loro hanno provato a trarre dei giovamenti che spero conserveranno quando torneranno, speriamo per loro, nei paesi d’origine”.

Perché “la rivoluzione più grande in un paese è quella che cambia le donne e il loro sistema di vita. Non si può fare la rivoluzione senza le donne”. Ai tempi della Fallaci e ai nostri.

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