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Global peace dividend

Una campagna da Nobel: “se negoziamo il disarmo, avremo più sviluppo e sicurezza”

L’obiettivo? Tagliare il 2% delle spese militari globali per liberare mille miliardi di dollari. Da utilizzare per il clima, la salute e i diritti di tutti. Ce ne parla Carlo Rovelli

Meno cannoni, più scuole. Meno trincee, più ponti. Meno armi per fare la guerra, più risorse per contrastare i cambiamenti climatici. Un antidoto contro la paura e allo stesso tempo la ricetta per avere tutti più sicurezza. Che è alla fine il “dividendo della pace”, il suo valore vero. A sottolinearlo sono oltre 50 premi Nobel, dirigenti politici e accademici impegnati in una campagna di sensibilizzazione al tempo della guerra in Europa e delle nuove tensioni nell’Oceano Pacifico. Ucraina, Russia, Stati Uniti, Nato, Cina, Taiwan: protagonisti volontari o involontari di una nuova strategia della tensione che rischia, questo il monito dei Nobel, di divorarsi le residue possibilità dell’umanità di un mondo con meno vittime e più diritti. In ballo c’è l’Agenda 2030, con quegli Obiettivi di sviluppo sostenibile che fanno la differenza tra povertà e benessere, giustizia e ingiustizia, vita e morte. Con Oltremare ne parla Carlo Rovelli, fisico e saggista italiano, co-fondatore di The Global Peace Dividend Initiative, organizzazione no profit che sostiene la campagna insieme con ong partner e più di 60mila cittadini di diversi Paesi. “Va fatta una premessa” dice. “Non chiediamo né all’Italia né a nessun altro Stato di ridurre il proprio budget militare bensì di negoziare un accordo globale perché siano tutti a spendere meno per le armi”.

Il fisico italiano Carlo Rovelli

Il fisico italiano Carlo Rovelli

L’obiettivo della campagna è la firma di un trattato che impegni gli Stati a tagliare le spese per la “difesa” del 2% all’anno per un periodo di cinque anni. Si calcola che in questo modo si libererebbero oltre mille miliardi di dollari, fondamentali per trovare soluzioni alle emergenze dei cambiamenti climatici, delle pandemie e della povertà. La proposta nasce dall’esame delle tendenze internazionali in materia di armamenti. Secondo i promotori della campagna, la spesa militare mondiale è raddoppiata dal 2000, è in aumento in quasi tutti i Paesi del mondo, e si sta avvicinando a 2mila miliardi di dollari all’anno. La tesi è che i singoli governi siano obbligati ad aumentare le proprie spese militari perché altri, percepiti come avversari, aumentano le loro. “Questo meccanismo alimenta la corsa agli armamenti, con un costo immenso” denunciano i Nobel. “Nello scenario peggiore, è un percorso che porta a conflitti devastanti; in quello migliore, è uno spreco di risorse che possono essere usate più saggiamente”

Il punto chiave è che il taglio del 2% delle spese militari libererebbe risorse preziose senza compromettere la sicurezza. “Dal punto di vista di ciascun Paese, questa non solo non diminuisce, ma infatti aumenta, perché gli Stati percepiti come avversari riducono la loro capacità militare” riprende Rovelli. Deterrenza ed equilibrio verrebbero mantenuti e un accordo internazionale contribuirebbe a ridurre l’animosità, allontanando il rischio di guerra. “La storia mostra che accordi per limitare gli armamenti sono realizzabili” sottolinea il fisico. “I trattati Salt e Start fra Stati Uniti e Unione Sovietica hanno ridotto il numero delle testate atomiche ben del 90%”.

Spesa militare mondiale, per regione, 1988-2021

Spesa militare mondiale, per regione, 1988-2021

La convinzione è che collaborare paga. Il “dividendo di pace” raggiungerebbe i mille miliardi di dollari entro il 2030, una cifra molto superiore a quella totale che oggi i Paesi destinano a tutti i programmi di cooperazione, tenendo nel conto anche le Nazione Unite e le sue agenzie. Il punto è evidenziato anche dal ricercatore Matteo Smerlak, pure co-fondatore di The Global Peace Dividend Initiative. L’occasione è il panel dal titolo Perché il disarmo è l’unica scelta possibile per salvare il nostro futuro? ospitato a Reggio Emilia dal festival di Emergency, una delle ong sostenitrici dell’iniziativa. “I governi devono sedersi attorno a un tavolo e creare un ciclo di negoziati sul budget nazionale delle spese militari” l’appello di Smerlak. “Se riuscissimo a coordinare tutti i governi, potremmo gestire quel denaro diversamente, ad esempio per le scuole e per gli ospedali”.

Ma che reazioni ha suscitato la campagna, lanciata in origine nel dicembre 2021, dunque in un momento carico di tensione, poche settimane prima dell’avvio dell’offensiva russa in Ucraina del 24 febbraio scorso? “La nostra proposta è caduta nel peggior momento possibile per via delle decisioni prese a Mosca e poi della scelta occidentale, imperniata su un aumento della spesa militare” risponde Rovelli. “C’è una grande tristezza ma allo stesso tempo una grande speranza: alle reazioni insoddisfacenti dei governi ne corrisponde una dell’opinione pubblica di segno opposto, anche in Italia, dove la maggioranza è contraria a un aumento delle spese militare e vuole un accordo globale per una loro riduzione”.

Biografia
Vincenzo Giardina
Nato a Padova, laureato in storia contemporanea, è un giornalista professionista. Coordina il notiziario internazionale dell’agenzia di stampa Dire. Tra le sue collaborazioni Il Venerdì di Repubblica, Internazionale, l’Espresso e Nigrizia. Già redattore dell’agenzia di stampa missionaria Misna, si è specializzato sull’Africa e sui temi dei diritti umani e della lotta contro le disuguaglianze. Scrive su Oltremare, magazine dell’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo, e interviene come esperto o inviato su Radio Rai, Radio Vaticana e altre emittenti. Suoi articoli e reportage sono pubblicati anche da La Stampa e Vanity Fair. Parla più lingue, tra le quali il russo.
www.vincenzogiardina.org
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