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Innovazione e cooperazione con gli Humanitarian Impact Bond

Fare cooperazione coinvolgendo nuovi attori e mobilitando quindi risorse aggiuntive, nel rispetto dei principi dell’azione umanitaria e aprendo al tempo stesso a concetti finora appannaggio del mondo della finanza. Queste le linee su cui è stato impostato il Programme for Humanitarian Impact Investment (Phii), noto più semplicemente come Humanitarian Impact Bond.

Nei fatti si tratta di uno strumento completamente nuovo, messo a punto dal Comitato internazionale della Croce Rossa (Cicr) per trovare altre forme di finanziamento alle proprie attività umanitarie, in cui il termine ‘bond’ deve essere letto come ‘private placement’, quindi collocamento di titoli riservato a un selezionato e ristretto numero di investitori internazionali.

Se l’obiettivo è chiaro, il meccanismo è complesso. Esso prevede il coinvolgimento di investitori sociali (social investors) che anticipano le risorse economiche per le attività del Cicr e di outcome funders – tra cui la Cooperazione italiana – che a scadenze pattuite restituiscono in tutto, in parte o anche con interessi agli investitori sociali i fondi messi a disposizione all’inizio. “Questa restituzione avviene sulla base dei risultati conseguiti” spiega Andrea Senatori, responsabile dell’Ufficio emergenza e Stati fragili presso Aics e referente dell’Italia per il progetto del Cicr. “Ed è proprio questa – continua Senatori – l’innovazione dell’intero disegno. C’è un cambio di prospettiva ovvero si passa da una modalità in cui si dispone l’avvio di un progetto mettendo a disposizione dei fondi a prescindere dal risultato a una modalità che prevede degli investitori ai quali sarà riconosciuto un rientro dell’investimento con eventuali interessi soltanto sulla base dei risultati conseguiti”. Un’operazione resa possibile dall’autorevolezza e dalla credibilità del soggetto promotore delle iniziative sul campo (il Cicr), dall’affidabilità degli outcome funders (oltre alla Cooperazione italiana ci sono anche i governi di Svizzera, Belgio, Regno Unito e la Fondazione spagnola La Caixa) e dalla messa a punto di criteri di valutazione del progetto di cui si è occupata un’apposita società di revisione (la Philanthropy Advisors). Quest’ultima valuta il rapporto di efficienza del personale basato sui risultati (Staff Efficiency Ratio).

Il primo progetto pilota prevede che i capitali mobilitati dal Cicr attraverso il coinvolgimento di istituti finanziari privati europei (i social investors, ovvero New Reinsurance Company Ltd., Compagnie du Bois Sauvage, Fondation Pro Victimis, Zembra Corporation, Fondation André et Cyprien, Fondation Lombard Odier, Fondation Patronale Lombard Odier & Cie) siano utilizzati per costruire tre nuovi centri di riabilitazione fisica a Maiduguri (Nigeria), Mopti (Mali) e Kinshasa (Repubblica democratica del Congo). I centri serviranno vittime di mine e ordigni inesplosi e persone disabili in tre Paesi dove il contributo della comunità internazionale è essenziale per dare una risposta a chi ha perso l’uso di un arto a causa di residuati bellici o di mine. “Inoltre – come ha sottolineato lo scorso ottobre il direttore di Aics Laura Frigenti in occasione dell’evento di lancio del programma – attraverso i finanziamenti resi disponibili dal Phii verranno formate le figure professionali da impiegare nei centri e sviluppati e testati nuovi indicatori di efficienza per i servizi riabilitativi in altri otto centri gestiti dal Comitato”.

Il programma avrà una durata di cinque anni: durante questo periodo saranno condotte periodiche valutazioni che consentiranno di ‘misurare’ i progressi realizzati sulla base di criteri quantitativi e qualitativi e che serviranno agli outcome funders per stabilire quanto restituire agli investitori. L’Italia si è impegnata a partecipare al progetto con un esborso massimo di 3,2 milioni di franchi svizzeri (circa 3 milioni di euro) su un totale di 26 milioni circa di franchi svizzeri; un esborso che, nel caso dell’Italia, avverrà al termine dei cinque anni sulla base, appunto, dei risultati conseguiti.

“Approcciarsi a questo programma – ricorda Senatori – ha significato ribaltare per molti versi alcune dinamiche tipiche della Cooperazione, ma allo stesso tempo ha aperto la strada a modalità che potranno essere applicate anche in altri ambiti, non soltanto sanitari, rispondendo per altro all’impegno che l’Italia aveva preso nel 2016 al World Humanitarian Summit di Istanbul in merito al ricorso a meccanismi di finanziamento innovativi e a un coinvolgimento dei privati. L’adesione al Programma del Cicr non è semplicemente uno spunto isolato, ma rientra in una strategia di più largo respiro individuata dalla stessa legge di riforma del settore della cooperazione”.

Di questa innovazione è ovviamente consapevole il Cicr. “Le sfide che oggi ci troviamo ad affrontare sono immense, milioni di uomini, donne e bambini stanno soffrendo. Questo strumento di finanziamento è un passo radicale, innovativo e allo stesso tempo logico” ha detto il presidente del Cicr, Peter Maurer. “Si tratta di una opportunità non solo per modernizzare gli attuali modelli di azione umanitaria, ma per testare un nuovo modello economico disegnato per meglio supportare chi è bisognoso di aiuto”, con la speranza concreta quindi che, al termine del progetto pilota, si possa dimostrare come modelli di finanziamento non tradizionali possano funzionare.

Altrettanto netta è la posizione di Elena Casolari, co-fondatore e presidente di Opes Impact Fund, organizzazione italiana che supporta lo sviluppo di imprese che si propongono di ottenere un impatto sociale significativo e durevole attraverso l’adozione di modelli operativi economicamente sostenibili. “Il programma del Cicr – sottolinea Casolari – costituisce un cambiamento di approccio operativo e di frame filosofico all’intervento umanitario e di sviluppo”. L’introduzione di indicatori di performance, infatti, implica un cambiamento di mentalità da parte degli implementatori, chiamati ora a familiarizzare con quei processi di data analysis che prima, per la loro cultura aziendale, non erano abituati a gestire. Ma anche gli investitori, l’altro soggetto cruciale in questi progetti, devono rivedere il proprio approccio all’investimento, dal momento che, chiarisce ancora Casolari, “il problema su queste architetture è la distribuzione del rischio. Io come investitore scelgo la realtà su cui investire ed è in genere una realtà su cui investo a tranche, in cui entro magari nel consiglio di amministrazione, c’è, in altre parole, un controllo molto importante sul capitale che io impiego. In questa architettura invece l’investitore è chiamato ad avere rischio ma con molta delega”.

Qui si può capire pertanto l’importanza del data analysis, che la presidente di Opes Impact Fund definisce come una sorta di garanzia per l’investitore, il quale, non potendo avere altre forme di controllo, ha bisogno di monitorare i risultati. Gli investitori, sintetizza Casolari, “hanno bisogno di essere educati a questa nuova forma di interventi e rassicurati, gli outcome funders – le agenzie di sviluppo, le organizzazioni filantropiche, le fondazioni – hanno invece bisogno di un cambio culturale”.

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