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L’anno in cui l’Africa si riprese la libertà rubata

Era il 1960 quando 17 Paesi del continente africano riconquistarono la libertà dal giogo coloniale. Da allora sono passati 60 anni: cosa è cambiato?

L’Africa che nasce nel 1960, anno simbolo nella battaglia per l’indipendenza dal giogo coloniale, non è la stessa che aveva visto cancellata la sua storia, che aveva visto milioni di suoi figli costretti alla schiavitù nella propria terra o nelle lontane Americhe. È un’Africa inevitabilmente nuova, costretta in alcuni casi a scendere a compromessi, a veder nascere frontiere che dividono comunità che parlano la stessa lingua e condividono la stessa storia.

Ma che il 1960 sia un momento storico è evidente a tutti fin da subito, soprattutto ai protagonisti. “A voi tutti amici miei, che avete lottato senza tregua al nostro fianco, chiedo di rendere questo 30 giugno 1960 una data illustre da conservare scolpita indelebilmente nei vostri cuori, una data il cui significato insegnerete ai vostri figli, così che essi facciano conoscere ai loro figli e ai loro nipoti la storia gloriosa della nostra lotta per la libertà” dirà Patrice Émery Lumumba, uno dei padri delle indipendenze africane, il giorno della celebrazione dell’indipendenza dell’ex Congo Belga. Parole che sono state il punto di partenza di una riflessione fatta sul mensile Africa e Affari da Jean-Léonard Touadi. Presidente del Centro relazioni con l’Africa della Società Geografica Italiana e funzionario della Fao, Touadi sottolinea come la celebrazione dell’anniversario serva innanzitutto agli africani per ricordare. “Fare memoria del 1960 – prosegue Touadi citando anche il grande storico burkinabé Joseph Ki-Zerbo – serve prima di tutto a noi, per decolonizzare il nostro immaginario e tornare a essere noi stessi. La memoria non serve alla colpevolizzazione altrui. Serve soprattutto a guardare in faccia il nostro passato e su di esso costruire l’era della riappropriazione del nostro destino collettivo e della nostra soggettività storica confiscata per secoli”.


E’ evidente come questo 1960, per nulla o poco percepito in Europa, rappresenti sì la fine di un’epoca, ma anche il limite ultimo di secoli di barbarie subiti dall’Africa a causa della schiavitù e della colonizzazione. Fenomeni che nei libri di storia occidentali occupano poche pagine in genere compilate con una visione molto parziale, hanno avuto un peso enorme sulla storia del continente africano e hanno determinato di fatto il continente così come oggi lo conosciamo.

Certo, fare un bilancio di questi primi 60 anni di indipendenza potrebbe sviare e allontanare dal senso più profondo di quella lotta di emancipazione. Perché sono stati fatti molti passi avanti e perché è evidente come la strada da percorrere per un pieno sviluppo del continente sia ancora lunga.
Sei decenni di storia per quasi cinquanta Paesi subsahariani non possono che essere stati densi di episodi, sviluppi e tragitti tra loro inevitabilmente disparati, talvolta contrapposti. Ma, scrive Giovanni Carbone per Ispi, tre elementi aiutano a sintetizzare il percorso fin qui compiuto: “Il primo è che l’Africa subsahariana non ha raggiunto i risultati auspicati al momento delle indipendenze; il secondo è che, complessivamente, l’andamento temporale è stato tutt’altro che lineare; il terzo è che la vicenda regionale subsahariana resta sostanzialmente omogenea”.

Secondo l’analisi di Carbone, l’Africa non ha raccolto quanto si attendeva di ottenere – o ci si attendeva che potesse ottenere – una volta sollevata la presenza coloniale. Questo non significa che il continente sia rimasto immobile (si pensi ai progressi dell’istruzione, della sanità, alle aperture democratiche, al processo di integrazione regionale). Eppure – scrive Giovanni Carbone – guardando tanto all’Africa subsahariana nel suo complesso quanto alle singole esperienze nazionali, è evidente che non si sia riusciti a sfruttare questo lasso di tempo per una trasformazione strutturale profonda dei Paesi della regione: “Non c’è nella regione un singolo Botswana – l’economia cresciuta più di ogni altra al mondo dagli anni Sessanta ad oggi, secondo alcune stime, in termini di tassi annui (superiori all’8% medio) – che si sia dimostrato in grado di diventare una Corea del Sud africana”. Questo, in termini statistici, ha portato l’Africa a scivolare ancora più indietro. Il reddito pro capite medio dei Paesi subsahariani nel 1960 era pari a quasi un terzo di quello globale (131 dollari su 453), mentre nel 2018 arrivava solo a circa un settimo (1.586 dollari contro 11.313).


Nella sua analisi, Carbone osserva poi un andamento non lineare del continente: tra gli anni Sessante e l’inizio del decennio successivo i risultati sembrano discreti; subito dopo in molti Paesi si assiste a un’involuzione durata 20 anni; quindi, dalla metà degli anni Novanta e fino al 2014 si assiste a un vero “momento” africano.

Il terzo aspetto su cui il responsabile dell’Africa Program di Ispi insiste è infine quello della relativa omogeneità che caratterizza le vicende africane. Questo significa che le differenze tra chi è più avanti e chi è rimasto indietro in Africa non sono le stesse ravvisabili in altre regioni (per esempio nell’Asia dell’Est, dove convivono Paesi ricchi come la Corea del Sud con Paesi poveri come la Cambogia). Anzi, in genere, in Africa quasi tutti i Paesi sono particolarmente sensibili a shock esogeni, perché troppo dipendenti dall’estero.

Quale è dunque il problema di fondo dell’Africa? Secondo il filosofo africano Martin Nkafu Nkemnkia, è la mancanza di modelli realmente africani. “Ora che la democrazia come sistema di governo occidentale è in crisi nei Paesi occidentali stessi, può il continente africano adottare questo sistema per la sua crescita?” si chiede Nkafu. “Non è forse meglio per gli africani, scegliere gli aspetti migliori dei diversi sistemi politici integrandoli e fondendoli con i propri valori e dare così un senso alla propria vita senza conflitti di identità?”.

Quesiti che restano sospesi e aperti al dibattito. Di certo, sottolinea ancora Touadi, nel 1960 l’Africa è tornata al posto che non avrebbe mai dovuto lasciare: è tornata anche per riannodare i fili di quell’incompiuto chiamato indipendenza, tradito dai condizionamenti della guerra fredda, da pianificate volontà neocoloniali, ma anche da un’élite africana che non ha potuto o saputo dare senso al più significativo successo anticoloniale africano dopo secoli di oppressione.

 

Biografia
Gianfranco Belgrano
Nato a Palermo nel 1973, Gianfranco Belgrano è un giornalista e si occupa soprattutto di esteri con una predilezione per l’Africa e il Medio Oriente. È direttore editoriale del mensile Africa e Affari e dell’agenzia di stampa InfoAfrica, per i quali si sposta spesso nel continente africano. Ha studiato Storia e Lingua dei Paesi arabi e vissuto per alcuni anni tra Tunisia, Siria e Inghilterra prima di trasferirsi a Roma. Ha lavorato o collaborato con varie testate (tra cui L’Ora ed EPolis) e si è avvicinato all’Africa con l’agenzia di stampa Misna, lasciata nel 2013 per fondare con alcuni amici e colleghi il gruppo editoriale Internationalia.
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