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La strada per Glasgow, verso i negoziati per il clima

Si è conclusa la Youth4Climate e la PreCOP, due momenti simbolici del processo negoziale Onu per il clima. Ora la palla passa alla diplomazia, prima con il G20 di Roma e infine per COP26. Mancare l’obiettivo rallenterebbe la corsa alla decarbonizzazione globale.

Si è concluso a Milano il doppio incontro Youth4Climate e la PreCOP. 400 delegati nel primo summit, tutti rigorosamente under30, da 197 Paesi, per la prima conferenza globale dei giovani sul clima, e 51 ministri e inviati per il clima nel secondo incontro che dal 28 al 2 ottobre si sono dati appuntamento nelle sale del MiCo per ravvivare l’ambizione dei negoziati in seno all’Unfccc, la convenzione quadro Onu sui cambiamenti climatici.

Un doppio evento, che nonostante mancasse del peso geopolitico di COP26, ha mandato due segnali importanti. Da un lato i ragazzi e ragazze di tutto il mondo sono oggi pronti a tenere alta l’ambizione mondiale legata all’accordo di Parigi, sia in piazza che a livello tecnico, nelle sale che contano. Dall’altra numerosi leader mondiali, dagli Usa guidati da John Kerry all’Unione Europea con Frans Timmermans, hanno ribadito l’impegno di voler raggiungere il contenimento delle temperature medie globali entro 1,5 gradi celsius al 2100. Insomma Milano è stato il momento della speranza.

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La youth4climate, voluta fortemente dall’ex ministro dell’Ambiente Sergio Costa, si è rivelata un grande successo sia nell’organizzazione (grande gestione da parte del Mite dei 400 ragazzi provenienti da ogni cultura e paese), sia nel risultato. “Come Italia ci impegnano a rendere questo evento permanente e a far pervenire tutti i documenti prodotti dai giovani alla COP26», ha dichiarato il ministro della Transizione energetica, Roberto Cingolani. Il testo approvato dai ragazzi, diviso in quattro temi principali, chiede un maggiore ruolo dei giovani nei negoziati ufficiali, un impegno del settore industriale alla decarbonizzazione (emissioni zero per moda, turismo, sport), maggiore supporto per la ripresa sostenibile, iniziative per l’educazione e divulgazione dei temi ambientali, maggiore inclusione degli attori civici nei processi decisionali. Ora il documento sarà inoltrato dal ministero dell’Ambiente direttamente all’Unfccc nel tentativo di trovare una collocazione nel testo finale del negoziato di Glasgow. Un impegno questo, preso anche dal ministro, che ha detto di non volere che “questo ottimo lavoro venga sprecato”, dimostrando così di tenere a questo incontro.

Ora però l’attenzione passa al G20, importante tappa intermedia, che a Roma, il 30 e 31 ottobre, vedrà i grandi della terra prendere impegni importanti sul clima a ridosso dell’inaugurazione del summit di Glasgow. Sul tavolo ci sono un obiettivo di lungo termine sulla dismissione del carbone come fonte di energia (tema che mette in difficoltà India e Cina), impegni concreti sulla finanza climatica (il primo ministro Mario Draghi dovrebbe raddoppiare l’impegno di spesa italiano ad 1 miliardo di euro l’anno), un target di riduzione delle emissioni di metano, un potente gas climalterante, del 30%, fortemente voluto dagli Usa. Per l’Italia è un momento di grande verità, in cui la diplomazia dovrà impegnarsi al massimo. Ma se Roma non è un incontro semplice il difficile inizia oltrepassato lo stretto della Manica il giorno dopo.

Verso Cop26

Alcuni hanno definito il negoziato della COP26, che si terrà dal 31 Ottobre al 13 novembre a Glasgow, in Scozia, “un nuovo momento storico”, “epocale”. Indubbiamente COP26 sarà la prima vera resa dei conti dai tempi della firma dell’Accordo di Parigi, siglato nel 2015. Da un lato serve chiudere il “rulebook”, il libro delle regole dell’Accordo, con due item scottanti sul tavolo, la finanza climatica (art.6) e i meccanismi di rendicontazione e trasparenza (art. 13). Dall’altro ci sono i nuovi Ndc, gli impegni nazionali di riduzione delle emissioni e adattamento che ogni membro firmatario dovrà presentare. Al momento 114 Paesi, che rappresentano però solo il 49% delle emissioni globali, hanno presentato un nuovo Ndc. Ma anche coloro che hanno fatto i compiti non si può dire li abbiano svolti al meglio. Secondo le Nazioni Unite, gli Ndc attuali proiettano un amento del riscaldamento globale di 2,7 gradi celsius . Direzione catastrofica, ha tuonato il segretario generale dell’Onu, António Guterres. Sarà tutto da vedere chi farà i compiti a casa bene, preannunciando però che Russia, Brasile e Arabia Saudita sicuramente salteranno la verifica.

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C’è un mix di ottimismo e preoccupazione. «Senza impegni politici e impegni finanziari da parte delle nazioni industrializzate, c’è un alto rischio di fallimento della COP26», ha dichiarato Guterres il 20 settembre al Forum of Major Economies on Energy and Climate. “Le nazioni del G20 sono responsabili dell’80% delle emissioni globali. La loro leadership è più necessaria che mai. Le decisioni che prenderanno determineranno se la promessa fatta a Parigi sarà mantenuta o infranta». Ma sulla divisione Cina – Usa, principale blocco di divisione dei negoziati, Kerry a Milano si è dimostrato possibilista, mentre Alok Sharma, presidente per la Gran Bretagna di COP26, ha ribadito che le posizioni dei due giganti economici sono sicuramente migliorate negli ultimi mesi. Certo pesa la grande aspettativa sul negoziato da parte degli inglesi alle prese con non poche problematiche domestiche, dagli scioperi dei trasportatori che potrebbero complicare non poco il negoziato, bloccando gli spostamenti alle restrizioni Covid, tra quarantene e visti, fino alla difficoltà di trovare alloggi in città, fattore che sta facendo desistere molti membri della società civile del global south a partecipare.

Finanza climatica

Non è forse l’elemento più contenzioso da negoziare: il primato va alla trasparenza. Però la finanza climatica è sicuramente l’argomento che media e politici cercheranno di far pesare come un successo se sarà trovata la quadra. L’obiettivo da raggiungere è trovare 100 miliardi di dollari per sostenere la decarbonizzazione e le politiche di adattamento nei Paesi meno sviluppati. Mario Draghi ha definito “un imperativo morale sostenere economicamente la transizione dei Paesi più vulnerabili”, mentre John Kerry si è detto “certo che i fondi saranno trovati», ma ha anche “incoraggiato gli Stati a fare di più”. Sono 20 i miliardi da trovare – in realtà il goal si sarebbe dovuto raggiungere nel 2020, ma il Covid-19 ha mandato tutto in tilt. Il che significa che si parte già in debito e che per andare alla pari andrebbero teoricamente versati 120 miliardi nel 2021, obiettivo tecnicamente irraggiungibile. Si cercherà una quadra sul goal dei 100 da dare in pasto ai media e chiudere la partita di un impegno vecchio di 12 anni. Infatti i 100 miliardi di dollari l’anno per la decarbonizzazione nei Paesi meno sviluppati vennero ipotizzati per la prima volta nel 2009 dall’allora Segretario di Stato, Hillary Clinton, per mantenere vivo il negoziato Onu dopo il fallimento dell’accordo di Copenaghen. Ribadito nel 2015 a Parigi, il meccanismo sarebbe dovuto partire lo scorso anno. Gli Usa hanno finalmente fatto la loro parte, aumentando da 5,7 miliardi di dollari a 11,4 miliardi il contributo americano alla finanza climatica. L’Italia probabilmente annuncerà un nuovo impegno economico per il clima durante l’evento di chiusura del G20, sfruttando così la piattaforma mediatica dell’evento. Secondo varie fonti il nostro Paese sarebbe pronto a raddoppiare l’impegno, raggiungendo il miliardo di dollari. Ma la cifra dovrebbe poi crescere con gli anni per essere in linea con gli obiettivi. “Bene l’allocazione di 1 miliardo per il 2022 ma l’Italia per un impegno equo deve raggiungere i quattro miliardi l’anno. Per questo Draghi si deve impegnare a presentare una roadmap di finanza per il clima per raggiungere la quota equa ben entro il 2025», ha commentato a Lifegate Luca Bergamaschi del think tank Ecco. Draghi però ha sorpreso gli osservatori più acuti chiedendo che questi fondi siano erogati in grant e non sotto forma di prestiti. Una richiesta diretta che è stata accolta con favore da molti delegati africani. “A Glasgow dovremo prendere la decisione di movimentare tutte queste risorse per politiche di mitigazione e adattamento nei paesi meno sviluppati, dalla Somalia all’Afghanistan, paesi dove il cambiamento climatico rischia di avere gli impatti più devastanti”, ha dichiarato a Oltremare Marirosa Iannelli, Advisor di Italian Climate Network. «La cooperazione allo sviluppo deve diventare un veicolo efficiente per queste risorse. La qualità dei progetti di cooperazione multilaterale è fondamentale, non possiamo permetterci di essere inefficaci. Ogni progetto conta»,

A Glasgow però si parlerà anche del regime post 2025, quando si dovrà fare di più che mettere 100 miliardi di dollari l’anno, impegno già deciso alla COP di Katowice. Secondo Kerry “per raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione servono quasi 3mila miliardi di dollari”. Una cifra impensabile per i soli governi dei Paesi industrializzati. Sicuramente dovranno entrare nel meccanismo anche i Paesi di nuova industrializzazione come Cina e India (che oggi ancora spingono per essere destinatari di questi fondi), allocando specificatamente fondi nel Green Climate Fund, il veicolo finanziario dedicato creato dalle nazioni Unite. Ma nemmeno questi basteranno. Secondo Sharma, sono necessari fino a mille miliardi tra fondi pubblici e privati. Per questo, ha annunciato il presidente britannico di COP26, “servirà un crescente ruolo della finanza privata”. Sharma ha anche menzionato il gruppo creato dall’ex governatore della Banca d’Inghilterra, Mark Carney, la Glasgow Financial Alliance, un gruppo di fondi e Sgr, che rappresenta asset finanziari per oltre 70mila miliardi di dollari. Un segnale chiaro che sta emergendo sempre più un approccio integrato tra stato, fondi e imprese sulla decarbonizzazione e adattamento nei Paesi meno industrializzati. Con quali effetti, è difficile dire.

 

Biografia
Emanuele Bompan
Giornalista ambientale e geografo. Si occupa di economia circolare, cambiamenti climatici, green-economy, politica americana. E’ Direttore della rivista Materia Rinnovabile, collabora con testate come La Stampa, Nuova Ecologia e Oltremare. Ha scritto l’Atlante geopolitico dell’Acqua (2019),Water Grabbing – le guerre nascoste per l’acqua nel XXI secolo (2018) “Che cosa è l’economia circolare” (2017). Ha vinto per quattro volte l’European Journalism Center  IDR Grant, una volta la Middlebury Environmental Journalism Fellowship, una volta la Google DNI Initiative ed è stato nominato Giornalista per la Terra nel 2015.

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