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Difendere l’ambiente, una priorità per la nostra politica estera

Grammenos Mastrojeni a Oltremare: mantenere la stabilità del sistema ecologico è una questione fondamentale per la pace. L’esperienza in Africa e l’impegno dell’Italia.

Diplomatico, docente e scrittore. Tre angolazioni per affrontare un tema cruciale: il legame fra tutela dell’ambiente, sviluppo e pace. Un impegno che Grammenos Mastrojeni ha portato avanti dai primi anni Novanta ricoprendo ruoli di primo piano in ambito interno e internazionale. Coordinatore per l’Ambiente della Cooperazione allo Sviluppo, è focal point nazionale per la lotta al degrado delle terre, capo negoziatore per le terre e l’acqua, ed è membro delle squadre negoziali sul clima, la biodiversità, e gli oceani, oltre che copresidente del Gruppo G7 su clima e e conflitti. Tra le sue numerose pubblicazioni e saggi, ricordiamo la recente uscita per Chiarelettere, con il climatologo Antonello Pasini, del libro, quanto mia attuale, “Effetto serra-effetto guerra: clima, conflitti, migrazioni, con l’Italia in prima linea”. Oltremare lo ha intervistato.

 

Perché nel nostro fare diplomazia, rientra, con un ruolo di primo piano, l’occuparsi di ambiente e di clima?

“Per risponderle compiutamente, credo sia utile fare un passo indietro: alle origini della Seconda guerra mondiale. Quello che ha portato alla più grossa tragedia della storia dell’umanità, ha fatto compiere un salto in avanti nella comprensione delle vere cause dei conflitti, in particolare quello che è successo in Germania. Questo perché Adolf Hitler non è andato al potere con un colpo di stato: ci aveva provato nel 1923, gli è andata male, fu rinchiuso in prigione dove scrisse il “Mein Kampf” nel quale ha indicato tutto quello che intendeva fare.

E nonostante questo, fu liberamente eletto e non da chiunque, bensì dalla porzione di popolazione in assoluto più istruita al mondo fra le due guerre, cioè la classe media tedesca. Questo ovviamente ha posto una domanda sul come è possibile che persone così colte, anche con una tradizione culturale così straordinariamente articolata, abbiano potuto compiere una scelta del genere. In un certo senso, si è scoperta l’acqua calda, e cioè che l’interpretazione della questione della pace portata fino a quel momento, soprattutto dai policy maker, aveva un elemento mancante nell’equazione…”

Vale a dire?

Fino ad allora il problema era ascritto o ai potenti – non è troppo lontano il periodo in cui si disinnescava una guerra facendo sposare i figli dei sovrani – oppure in una ottica più evoluta, tra l’altro introdotta da Bismark, a una questione di equilibrio di potere ma sempre fra Stati. Invece era del tutto assente la popolazione. Con quanto è successo in Germania, si è scoperto che i potenti piuttosto che gli equilibri tra Stati sono dei fattori scatenanti ma tutto dipende da un’autorizzazione delle popolazioni ai loro regimi a compiere scelte aggressive, e questo normalmente avviene quando le popolazioni sono soggette a grande stress socioeconomico.

Su questa constatazione si è creata la più grande macchina internazionale mai esistita, vale a dire le Nazioni Unite. Le Nazioni Unite hanno un unico scopo che è quello di mantenere la pace: hanno un organo appositamente dedicato a questo, che è il Consiglio di Sicurezza dove lavora pochissima gente, sono poco più di quaranta a fronte dei 200mila dipendenti dell’Onu che si occupano di cose apparentemente lontane dalla questione della pace e della guerra…

Cosa fanno questi 200mila?

Cercano di fare in modo che le popolazioni non si trovino in quelle condizioni di pesante stress socioeconomico che poi conducono a scelte di conflitto. Quando le Nazioni Unite sono nate, erano chiari alcuni elementi di questa equazione: quindi protezione dell’infanzia, protezione dei diritti dell’uomo, piano piano l’economia, ma non era ancora stato capito che anche un ambiente degradato poteva diventare un fattore di stress per le società.

Questo lo si è iniziato a capire all’inizio degli anni Settanta, in particolare c’è stato un passaggio fondamentale anche se poco compreso al momento: mi riferisco alla Conferenza di Stoccolma del 1972, dove tutti gli Stati sono andati considerando che ci fosse una specie di tensione insolubile tra sviluppo e ambiente. In particolare, gli Stati del blocco sovietico andarono dichiarando che l’ambiente era un lusso borghese…Ma Indira Gandhi, primo ministro indiano, in un suo discorso dichiarò che il peggiore inquinamento è la povertà. Questo avviò una riflessione che portò alcuni ad anticipare negli anni Ottanta il fatto che un ambiente disfunzionale avrebbe esercitato delle pressioni sulla disponibilità di risorse. Ma questo era solo il primo punto. Comunque, entrava così la questione dell’ambiente nella questione della pace. Piano piano il pensiero si è raffinato e abbiamo capito qual è il vero problema che viene con il degrado ambientale.

Non è tanto una questione di maggiori o minori risorse disponibili, c’è anche quello, e non è neanche il fatto che un clima mutato da noi, più energetico, porta o dei danni alle infrastrutture, neanche tanto il triste fatto che un clima più caldo impatta sulla fisiologia delle persone…Il vero problema è che siccome noi introitiamo energia e ne introitiamo molta, l’equivalente dell’esplosione di 410mila bombe atomiche al giorno, e questa energia solare non è incanalata nelle strutture su cui si è modellato il pianeta, essa si trasforma in disordine.

Quindi il famoso grado di aumento della temperatura media di cui si parla, con una scelta di comunicazione a mio avviso un po’ scellerata perché nessuno si spaventa con questo numero, in realtà corrisponde a una quantità enorme di energia che si mette a vagare libera nel sistema e lo rende imprevedibile. In altri termini, il vero problema è che con il cambiamento climatico, che è l’orologio della natura, tutti i servizi che fornisce la natura diventano imprevedibili…

E quindi…

Non si sa più con certezza quando arriva la primavera, non si sa più con certezza se piove o quando piove etc…E in queste condizioni qui, soprattutto i Paesi più fragili si destabilizzano. Attenzione, però: l’agricoltura che è certo alla base di queste economie ma lo è anche delle nostre, perché non bisogna pensare che sia solo un problema rurale, anche il gestore dell’acquedotto di Milano non può fare bene il proprio lavoro se non ha la minima idea dell’innevamento delle Alpi.

Noi continuiamo a dipendere strettamente dai servizi della natura e riusciamo ad organizzarci solo se riusciamo a prevederli, se rispondono ai cicli ordinari. Il cambiamento climatico, risuonando con tutte le altre forme di degrado ambientale, rende del tutto imprevedibili quei servizi su cui dobbiamo ancora contare. Un esempio che ci fa capire bene cosa sta succedendo è la comparazione tra deserto e fasce della desertificazione. Nell’Africa settentrionale ci sono prevalentemente deserti e ci sono persone che si sono adattate a questo ecosistema avaro. Solo che ora c’è anche una fascia attiva che è di desertificazione, dovuta non solo ma anche prepotentemente ai cambiamenti climatici.

Se noi mettiamo sui classici piatti della bilancia, in termini assoluti, la generosità dell’ecosistema del deserto, la generosità dell’ecosistema della fascia della desertificazione, quest’ultima è ancora obiettivamente più generosa, però lì si sono persi riferimenti temporali. E questa fascia si sovrappone perfettamente alla fascia di concentrazione della fame, la fascia di concentrazione dei conflitti, la fascia di concentrazione dei traffici, quella delle dinamiche terroristiche e potrei andare avanti citando circa 90 overlapping: una fascia di risorgenza dell’epidemia di meningite, perfino con una fascia di intensificazione di stupri. Il clima dà il ritmo della regolarità.

La regolarità a sua volta è governata dalla legalità. Quando la regolarità viene meno anche l’ambito della legalità si restringe e lascia spazio al caos, alla illegalità. In questo modo ci siamo resi conto che non è un “lusso borghese”, ma mantenere la stabilità del sistema ecologico è una questione fondamentale per la pace. E in questo senso rientra nei compiti delle Nazioni Unite.

In questo senso quello che andavano a fare i miei poveri colleghi e amici deceduti nel disastro aereo in Etiopia, era di grande importanza. Poco noto al pubblico, ma forse in assoluto la questione geostrategica più rilevante negli anni a venire. Noi parliamo molto dell’Africa ma ci sono dei potenziali di destabilizzazione che sono veramente drammatici…

Quali in particolare?

È previsto che i ghiacciai della fascia dell’Himalaya-Hindu Kush e Palmir a un certo punto collassino. Non è che continueranno a fondere in proporzione all’aumento del calore: ci sono meccanismi di soglia che oltre un certo punto collassano. La reazione che l’uomo europeo può avere a questa notizia è, forse, un sentimento di perdita estetica, ma poi considera che sia qualcosa di molto lontano da noi.

Se non che visto che lì c’è un clima monsonico, che i ghiacciai accumulano eccesso di umidità dalla stagione delle piogge e poi lo rilasciano gradualmente durante la stagione secca attraverso un sistema di fiumi che irriga piani dove sono stanziate 1,4 miliardi di persone: se i ghiacciai collassano, quelle piane diventano caratterizzate da una ingestibile alternanza di siccità e alluvioni. E se noi pensiamo che il famoso crollo dell’Impero romano è molto legato ad una piccola fluttuazione del clima che ha portato un clima più freddo in Asia centrale, che poi ha portato a movimenti di popolazioni che hanno fatto pressione sui nostri confini, capiamo come tutto questo possa riguardarci ora, in un’epoca in cui non ci si muove a cavallo e in cui, magari, ci si porta dietro una testata atomica.

Queste considerazioni sono, secondo Lei, un patrimonio consolidato a livello di leadership mondiali?

Adesso sì. Ci abbiamo impiegato molto, va detto, perché c’è stata una fase di scetticismo, era un concetto nuovo, ma ormai non c’è più dubbio. E’ così. E la cosa interessante è che questo tipo di preoccupazioni non sono espressi dai consueti circoli ambientalisti, ma sono soprattutto espressi da ambienti conservatori che culturalmente non avrebbero molto a che fare con l’ambientalismo. I primi a dare un allarme istituzionale sono stati quelli del Pentagono, che non sono proprio Greenpeace…

Se Lei va vedere il sito della Nato o del Centro studi della Cia, trova almeno 8-9 pubblicazioni riferite all’impatto dei cambiamenti climatici sulla sicurezza al 2030. Ormai tali preoccupazioni, e acquisizioni, sono state incorporate, anche il G7 ha creato un gruppo di cui sono stato co-presidente durante il nostro periodo, e a sua volta questo ha prodotto una pubblicazione adottata dai ministri degli Esteri, dove tutto questo è chiaramente affermato. Questa prima fase, cioè rendersi conto del problema, è stata superata. Adesso siamo nella fase dell’elaborazione delle strategie per farvi fronte.

E’ un po’ più complesso ma non è mission impossible. E tra l’altro la cosa più straordinaria è che tutte le strategie efficaci per far fronte a questo tipo di situazione sono anche strategie di crescita economica. In realtà non ci sarebbe un prezzo da pagare, si tratta solo di orientare le nostre economie più verso un co-sviluppo che verso una competizione completamente prive di regole.

Ma allora perché l’impressione che si ha è che gli interessi nazionali, sovranisti verrebbe da dire oggi, facciano da ostacolo alla definizione di un “Patto globale” per la salvaguardia del pianeta?

Il “Patto globale”, che è uno strumento giuridico, ha delle sue problematiche, in particolare va ad incidere in una maniera abbastanza profonda su delle prerogative di sovranità, per cui ci possono essere delle resistenze ma questo non vuol dire che non si possa trovare una cooperazione. Ci sono obiettivamente degli ostacoli a riconoscere che l’ambiente, ovunque si trovi, è un patrimonio comune, riconoscendo, solo per fare un esempio, che certe foreste tropicali non appartengono solo al Paese che le ospita ma appartengono a tutta l’umanità.

Questi ostacoli ci sono, vanno messi nel conto, ma ciò non vuol dire che non si possa partire in maniera pragmatica verso le soluzioni. Poi in particolare dal punto di vista dell’Italia c’è una perfetta coincidenza tra l’interesse nazionale, anche quello inteso nella maniera più classica, e l’interesse a disinnescare tutto questo e a creare quelle strutture socioeconomiche che mentre recuperano l’ambiente creano anche stabilità sociale.

L’Italia, per l’appunto. Visto dal suo osservatorio privilegiato, interno e internazionale. Il nostro Paese, inteso come sistema-Italia, sta facendo davvero tutto il possibile per andare nella direzione da Lei auspicata?

Tutto il possibile è un’affermazione grossa, non c’è nessun sistema-Paese al mondo che si sia attrezzato per fare tutto il possibile, perché richiede una transizione che investa il sistema intero, e non un suo comparto, ma tutto sta succedendo abbastanza rapidamente. Tutto sommato sì, stiamo facendo molto, siamo anche gli antesignani di alcune delle tecnologie e degli approcci che sono in assoluto più efficaci, che hanno un rapporto costo-risultati tra i migliori. Non è scienza missilistica.

Noi non possiamo lasciare l’Africa a se stessa. Non è solo questione di dare una generica assistenza. Bisogna aiutarli a creare reddito a partire da un ecosistema rivitalizzato. Ciò vuol dire agricoltura, soprattutto quella piccola, familiare, crearci sopra delle filiere che oltre a dare uno sbocco sul mercato locale, diano anche una redditività. Significa su questa agricoltura rivitalizzata aiutare a creare un mercato, un artigianato, un’industria…Riattivare un ettaro di terreno desertificato nel Sahel costa pochissimo, si tratta solo di fare delle pozzette di decantazione.

Quando si fanno queste pozze di decantazione riparte la vegetazione con un ritmo tale che assorbe carbonio al punto che per ottenere lo stesso risultato, investendo in alte tecnologie, bisogna spendere 1000-1500 dollari. Prima cosa. Seconda cosa, si ottiene la ripartenza della biodiversità, che vuol dire fertilità. Assieme alla ripartenza della vegetazione si autorisolve il problema idrico, perché la vegetazione ritrattiene l’acqua, non c’è più bisogno di fare pozzette in via infinita. E si risolve un altro problema di cui nessuno parla…

Vale a dire?

La mitigazione locale delle temperature. Immagini che domani uno dei grandi colossi multinazionali nel campo decida improvvisamente di non inquinare più. Sarebbe una gran cosa per l’umanità ma i vantaggi verrebbero distribuiti in maniera indiscriminata. C’è un unico modo per far calare le temperature lì dove serve, che è con la copertura vegetale.

Pochi mesi fa ero in Etiopia, ho parlato con la comunità che mi diceva: prima qui stavamo bene, poi dopo la desertificazione abbiamo chiesto di essere rilocati, non solo perché non c’è più da mangiare ma perché questa terra qui, con il sole a picco sopra, riflesso dalle pietre senza vegetazione sotto, diventava un fuoco: 50-51 gradi. Noi abbiamo applicato queste tecniche: è ricresciuta la vegetazione e non è che è la temperatura è diminuita di 2 gradi, è passata da 50 a 34. Lì ce n’era bisogno. E fin qui abbiamo l’effetto ecosistemico: mentre assorbiamo carbonio, quindi aiutiamo a risolvere in generale il problema dei cambiamenti climatici, facciamo ripartire le altre attività: dalla fertilità riparte l’agricoltura, dall’agricoltura ripartono i mercati locali, c’è una funzione di empowerment delle donne, c’è una funzione di mobilitazione delle culture tradizionali.

Queste operazioni si possono fare e le stiamo facendo. Per esempio, la Regione Emilia-Romagna si è innestata sul recupero di alcune varietà di grani tradizionali etiopici e gli ha creato una filiera di valore. Una Ong di Torino, che si chiama Alisei, è andata a scoprire che nella minacciata foresta di São Tomé si poteva recuperare una coltivazione tradizionale di cacao nella foresta. Era diventata antieconomica nel mercato standardizzato, perché significa nessuna meccanizzazione della foresta, ma ha una qualità tale per si può vendere a sette volte il prezzo di mercato normale, e quindi abbiamo creato una ragione per…

Lo applichiamo al turismo, col turismo sostenibile… Il fatto che lo facciamo noi, con i nostri partner europei, significa che invece di creare delle strutture di dipendenza ci leghiamo reciprocamente a queste terre in un meccanismo di co-sviluppo. Espandiamo anche il Pil, creiamo benessere, stabilizzazione. Non c’è nessuna contraddizione tra un impegno per la salvaguardia dell’ambiente e le priorità di politica estera, anzi ormai vanno mano nella mano e io la definirei proprio per l’Italia che si distende come un ponte tra le due sponde del Mediterraneo, forse la priorità di politica estera numero uno. Come mai non emerge così tanto? Perché i media, me lo lasci dire, si occupano soprattutto del contingente.

Questo discorso è un po’ più strutturale. E poi c’è anche questa narrativa un po’ strana: da una parte c’è il pubblico buono, un po’ vittima, e dall’altra ci sono le imprese e i governi. Le imprese hanno compreso che sostenibile conviene: si stanno riconvertendo il più velocemente possibile, non solo perché sono state conquistate da una nuova visione della salvezza del mondo, ma semplicemente perché la finanza stessa lo dice: l’impresa sostenibile rende di più ed è più stabile. Gli investimenti fatti dai grandi fondi in imprese caratterizzate da sostenibilità sono aumentati di 18 volte in 10 anni e oggi son 1/4 degli asset gestiti. Le imprese ci sono. Le motivazioni ci sono, uno potrà sindacarle, ma comunque ci sono…

E i governi?

I governi fanno quello che possono in una normale ottica di “tocca a me, no tocca a te”, che va messa in conto. Quello che manca un po’ all’appello è, a mio avviso, la consapevolezza del pubblico. Il pubblico dei compratori, di chi fa la domanda, ma anche di quel pubblico che compra in un’altra maniera, “compra” col voto. Siccome qui i benefici sono indiretti – pur essendo in realtà direttissimi, tangibili – e seguono una catena di conseguenze, è difficile farli entrare nel ciclo elettorale. E’ questa è obiettivamente una difficoltà. Detto ciò, anche qui sono ottimista. Stanno cambiando le cose. Ad esempio il movimento lanciato da Greta Thunberg mi dà una certa speranza anche se, pur appoggiandolo al 100 per cento è un movimento ancora incompleto…

Perché incompleto?

Perché è un movimento che dice: governi, fate il vostro dovere. Credo che debbano fare un passo in più: governi fate il vostro dovere, mentre noi cittadini ci diamo da fare per fare il nostro. Perché poi quantitativamente tutti questi scenari terribili che si stagliano all’orizzonte si risolvono con la somma di piccoli cambiamenti individuali nei comportamenti.

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