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Il continente fuori dagli stereotipi raccontato da “Africa e Affari”.

“Cambiare rotta per ripensare al futuro”. Con il direttore, Massimo Zaurrini, una riflessione sul paese con cui costruire nuovi partenariati, cominciando dall’agroalimentare e farmaceutico.

Dal 2013 Africa e Affari è il mensile dedicato all’Africa che ogni mese sviluppa un dibattito attorno a un focus centrale entrando nel cuore del continente per approfondire la realtà delle sue vicende economiche e politiche. Nata dall’esperienza della redazione di InfoAfrica, strumento informativo per aziende, istituzioni e ong che guardano all’Africa, la rivista è divenuta un osservatorio privilegiato che ha registrato come in questa emergenza sanitaria, che non conosce frontiere, siano emerse ancora più evidenti le disuguaglianze del pianeta e le fragilità del continente africano. Oltremare ha incontrato il direttore Massimo Zaurrini, che ci guida in una riflessione sulla realtà africana del presente per ripensare al futuro.

 

Da circa un decennio raccontate l’Africa lontano dagli stereotipi: oggi come sta reagendo il continente all’emergenza Covid-19 e quali conseguenze emergono dal punto di vista economico e sociale?

Mentre scrivo, il Covid-19 ha leggermente accelerato la sua diffusione in alcuni paesi (Sudafrica ed Egitto in primis) ma non ha ancora toccato numeri altissimi nel continente africano, parliamo di meno di 70.000 casi su una popolazione di 1,3 miliardi di abitanti sparsi in 54 paesi. Eppure risparmiata finora dal lato sanitario, l’Africa sta conoscendo al pari di zone molto più colpite (Europa, Cina e America) le conseguenze economiche. La drastica frenata nella produzione e nei consumi globali, unita alla crisi tra i Paesi produttori di petrolio, ha fatto crollare i prezzi delle materie prime. Il lockdown in Europa e in America ha costretto anche gli immigrati a casa, bloccando le rimesse. La paura e le misure di prevenzione, che tengono tutti gli aerei del pianeta a terra, hanno congelato il turismo. Parlare di nuovi investimenti sarà difficile per un po’ di tempo. Il commercio internazionale forse riprenderà ma non certo al ritmo pre-Covid-19, perché ci aspettano tempi incerti, e in tempi incerti la gente è più accorta.


Sembra lo scenario di un continente isolato nonostante qui si concentrino i maggiori sforzi della comunità internazionale, ma allora quale è la strada giusta per uscirne?

Questo improvviso isolamento per l’Africa comporta dei rischi più che altrove. I Paesi africani già avevano l’urgenza di spingere su industrializzazione, settore manifatturiero e creazione di valore aggiunto, a cominciare dall’agroalimentare, così da tagliare importazioni, creare lavoro ed economie e rispondere alle necessità alimentari delle proprie popolazioni. Le terre ci sono, l’acqua pure e così anche milioni e milioni di giovani che hanno bisogno di lavorare.

Dunque cosa possiamo fare noi per l’Africa e cosa l’Africa può fare per l’Italia?

L’Italia può avviare una fase completamente nuova di cooperazione con l’Africa cominciando proprio dall’agroalimentare e dal farmaceutico. In un momento difficile come quello che l’Italia sta attraversando e attraverserà, la parola cooperazione non può diventare una parolaccia o qualcosa di cui vergognarsi. Non può diventare una parola sussurrata o detta all’orecchio perché qualcuno ritiene che vengano “prima gli italiani”.
Come ci ricorda la Treccani, in senso economico e giuridico, la cooperazione è una «azione svolta in comune, con fini mutualistici e non speculativi». Realizzare partenariati con Paesi africani finanziando l’ideazione e la realizzazione di filiere agroalimentari, coinvolgendo tutte le aziende italiane del settore lungo la catena del valore, non aiuta solo il Paese africano individuato ma anche le aziende italiane. Costruendo queste filiere si pongono le basi per una maggiore sicurezza alimentare nel Paese target e si dà respiro nell’immediato anche alle aziende italiane del settore, oltre ad aprire loro nuovi mercati. Mercati, quelli africani, che saranno i mercati dei prossimi decenni. A dirlo non sono io, ma le macrotendenze individuate ormai da anni da tutti i centri studi globali in materia di economia, demografia e urbanizzazione. Nel settore sanitario si potrebbe fare lo stesso. Da laboratori di analisi a fabbriche, magari in un parco industriale tessile in Etiopia, in grado di produrre mascherine a sei ore di aereo cargo di distanza da Roma. Siamo sicuri che costruire un nuovo tipo di partenariato con alcuni paesi africani a poche ore da casa nostra non sia strategico anche per l’Italia. O vogliamo continuare a fare affidamento su una globalizzazione che ha mostrato tutti i suoi limiti e i suoi egoismi?

Non sappiamo quando usciremo da questa emergenza Covid-19, ma pare certo che il dopo-virus ci lascerà un mondo diverso. Forse, pur nella drammaticità della situazione, si può trovare un’occasione di crescita: quali sono i nodi su cui riflettere e le cose da ripensare?

È il momento di cambiare completamente rotta. Quando il coronavirus sarà passato ci lascerà un mondo diverso. La fase 1 non sarà seguita da una fase 2. Non entreremo mai in una fase 2, perché dovremo inventarci una fase 0. Una fase in cui ripensare molte cose che già prima del virus sapevamo bene tutti che andavano cambiate, ma che per abitudine, disinteresse o interesse, continuavamo a tollerare.

Con la “Lettera aperta”, rivolta ai capi di stato africani e a tutti gli africani, scritta da 100 intellettuali e accademici (tra cui il premio Nobel Wole Soyinka) si è aperta una profonda riflessione sul futuro dell’Africa a partire dal suo interno (classe politica, istituzioni, classe dirigente). La Lettera afferma che questa pandemia “minaccia di scuotere dalle fondamenta stati e amministrazioni africane, i cui fallimenti sono stati ignorati troppo a lungo”, fino ad affermare che questa Africa in procinto di emergere economicamente è “una rappresentazione in larga parte immaginaria”. Qual è la tua opinione in merito?

Credo che sia una denuncia sacrosanta, ma ho sempre ritenuto che questo tipo di critiche (soprattutto quando dure) siano ad esclusivo appannaggio degli africani stessi. La lettera dei 100 intellettuali e accademici africani è una sveglia fatta suonare ai leader e alle popolazioni africane da alcune figure chiave di quelle stesse culture. Quando queste stesse critiche vengono mosse da chi si trova nei cosiddetti “paesi occidentali” hanno sempre un retrogusto paternalista di chi crede di poter insegnare qualcosa da un piedistallo. Un piedistallo discutibile considerando che ai paesi occidentali piace troppo spesso criticare i “fallimenti delle amministrazioni africane” con cui non hanno buone relazioni e tacere serenamente i “fallimenti” (identici agli altri) di quelli considerati ‘amici’. Ribadisco quindi che tutte le critiche, anche le più ruvide, fatte da africani ad altri africani sono sacrosante. Riguardo alla definizione di “rappresentazione in larga parte immaginaria” della cosiddetta narrativa dell’Africa Rising avrei voglia di un confronto. Personalmente non ritengo che il termine “immaginario” sia corretto. La crescita della classe media urbana (e sottolineo urbana) i dati di diminuzione della povertà o di allungamento dell’aspettativa di vita, della crescita del Pil, dell’aumento dei servizi sono dati, non immagini. Ma, avendo parlato spesso di questo con intellettuali ed economisti africani negli ultimi anni, capisco che quell’espressione intende evidenziare che larga parte delle popolazioni africane è ancora tagliata fuori dall’immagine brillante di un continente pronto a emergere economicamente.

E riguardo all’Italia in Africa?

Sono trent’anni che l’Italia avanza nella storia, da un punto di vista di politica estera, senza una chiara strategia o visione. Brancola. Vive alla giornata. Certo dal 30 dicembre 2013, quando l’allora ministro degli Esteri Emma Bonino annunciò l’iniziativa Italia-Africa sicuramente l’attenzione del nostro paese verso il continente da parte di alcune Istituzioni (Farnesina e Quirinale in testa) è aumentata e migliorata. Ma serve un piano per l’Italia e per l’Africa. Le risposte che l’Africa darà alle sue sfide non incideranno sul futuro solo del continente ma del pianeta intero e anche sul nostro, che siamo dall’altra parte del pianerottolo (il Mediterraneo). Politica, economia e cooperazione. Serve un nuovo modello di cooperazione. Se quello usato finora non va bene, troviamone un altro, ma facciamolo in fretta. Prima che dall’Africa restiamo esclusi e che la parola cooperazione diventi una bestemmia. Prima che il Covid-19, dopo averci chiuso in casa, ci chiuda definitivamente anche il cervello.

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