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Afghanistan: SDGs fermi da sei anni, e la situazione può peggiorare

Fermi da sei anni i progressi degli SDGs in Afghanistan. Dai diritti delle donne al cambiamento climatico la situazione è critica. E rischia di aggravarsi sensibilmente a causa dell’incertezza e instabilità politica.

“Nessuno progresso negli ultimi sei anni per il raggiungimento degli SDGs fissati dal governo afghano nel 2015”. Così riferiva martedì 2 marzo 2021, Tolo Tv, una delle televisioni più popolari afghane. «Un fatto molto frustrante per il popolo afghano e la comunità internazionale che ha sostenuto l’Afghanistan nei suoi sforzi per lo sviluppo e la ricostruzione del paese negli ultimi 19 anni». Il servizio televisivo menzionava anche il fatto come “nessun programma era stato delineato per raggiungere gli obiettivi degli SDGs in Afghanistan”. Le autorità erano corse al riparo, indicendo subito un in collaborazione con il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Undp) e altre parti interessate per rivedere i progressi degli SDGs in Afghanistan (A-SDGs), fare una stima dei costi degli A-SDG e scegliere le migliori opzioni politiche rilanciare un’azione concreta. Questo ancora prima dell’arrivo dei taliban a Kabul.

La situazione critica in quasi tutti gli obiettivi di sviluppo sostenibile è il risultato di un mix di inefficienza da parte del processo di nation building del governo americano, corruzione in quello afghano, inefficienza da parte della moltitudine di ong e organizzazioni umanitarie accorse nel Paese richiamate dai generosi finanziamenti europei, americani e internazionali in generale. Esperti come James Robinson e Damon Acemoglu hanno argomentato (The Narrow Corridor, 2019) come la mancanza di conoscenza di una società estremamente eterogenea, organizzata intorno a consuetudini e strutture locali, ha vanificato la costruzione di istituzioni secondo un modello occidentale.

Una crisi sociale perdurante.

L’Afghanistan è un Paese di circa 35 milioni di persone, con un tasso di povertà del 54% (nel 2019), una popolazione giovanissima (l’età media si aggira sui 20 anni), dove il 26% dei minori di 14 anni lavora regolarmente. L’istruzione è progredita, con un tasso di alfabetizzazione del 43 per centro (era il 34% nel 2017, secondo dati Unesco), grazie ad uno per più grandi programmi di alfabetizzazione promossi dall’organizzazione Onu per l’educazione, la scienza e la cultura, e un migliore accesso alla scolarizzazione per bambine e ragazze. Analizzando i dati delle varie agenzie delle Nazioni Unite salta all’occhio come gli indicatori di povertà, di sicurezza alimentare, educazione e sanità siano fortemente polarizzati tra centri urbani di grandi dimensioni e le aree rurali, specie quelle montane e più conservatrici come nella provincia di Kandahar.

Tra i numeri che colpiscono la mortalità neonatale rimane grave (35,9 morti ogni mille bambini) così come l’accesso ad acqua potabile (42 per cento a livello nazionale, 27 per cento nelle aree rurali), che di fatto è causa di circa 85mila decessi l’anno per diarrea (per bambini sotto i cinque anni). Secondo l’agenzia americana per gli aiuti internazionali (Usaid) nel periodo 2016-2020 circa 500mila afgani in più hanno potuto accedere all’acqua potabile, grazie ai progetti americani, senza però contare il peggioramento dell’infrastruttura idrica deteriorata nelle aree di conflitto e nelle zone colpite da scarsità idrica.

Male ancora sull’obiettivo di sviluppo sostenibile 5, raggiungere l’uguaglianza di genere ed emancipare tutte le donne e le ragazze. Il matrimonio precoce in Afghanistan persiste a tassi che suggeriscono che almeno una ragazza su tre si sposerà prima dei 18 anni. Alcune ragazze possono sposarsi anche a dieci o dodici, seguendo vecchie convinzioni diffuse, che ritengono che l’età da matrimonio sia intorno ai 15 anni. Ma data l’assenza di informazioni precise, permangono lacune nelle conoscenze riguardo alla prevalenza, alla pratica e ai fattori trainanti. Limitati anche i progressi sulla violenza contro le donne, inclusi omicidi, aggressioni e stupri. Questo tipo di abusi sono raramente perseguiti a causa delle pressioni dei familiari e ci sono pochissimi servizi a disposizione delle persone che cercano di sfuggire alla violenza. Lo scorso anno ha sconvolto il mondo il caso di Lal Bibi, una ragazza di 17 anni di Faryab – riporta Human Rights Watch – che era stata picchiata e bruciata dal padre e dal marito. Nonostante le accuse i capivillaggio, hanno fatto pressione e ottenuto il rilascio degli accusati.

Covid-19 e sanità

Il Sars-Cov2 ha avuto i suoi impatti sul sistema sanitario. Si sono registrati circa 7000 decessi, ma il numero esatto di casi e di morti rimane assolutamente incerto. Dal 15 agosto i dati non vengono aggiornati. Secondo un rapporto delle Nazioni Unite di settembre 2020, gli ospedali e le cliniche già fortemente sotto stress, hanno visto un calo del 30-40% delle richieste di assistenza sanitaria per altre malattie, con un impatto sproporzionatamente negativo sulle persone con disabilità, in particolare donne e ragazze, che già non hanno accesso a servizi sanitari e sociali adeguati a causa della diffusa discriminazione. Le strutture rimangono generalmente carenti, nonostante l’ottimo lavoro svolto da ong come Emergency. “La situazione è drammatica, i Covid hospital non hanno più posti letto, non esistono vere terapie intensive, c’è una enorme difficoltà a reperire ossigeno”, ha riferito a SkyTg24 il coordinatore di Emergency in Afghanistan, Marco Puntin.

Non c’è solo la pandemia però. L’Afghanistan, insieme al Pakistan e alla Nigeria, è uno dei tre Paesi al mondo dove deve ancora essere si registrando casi di poliomelite, una malattia infettiva che colpisce in modo particolare i bambini di età inferiore ai cinque anni e che può portare in molti casi alla disabilità permanente o alla morte. Per questa ragione, “nel 1988 fu lanciata l’iniziativa globale per l’eradicazione della poliomielite – la Global Polio Eradication Initiative (Gpei) – finanziata da donatori pubblici e privati con l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) e Unicef e incaricate di realizzare l’iniziativa sul campo in collaborazione con i Ministeri della Salute dei Paesi partner”, come evidenzia a Oltremare Francesca Fiorino, medico e direttrice dipartimento Aics.  “In Afghanistan i finanziamenti da parte della Cooperazione Italiana per l’eradicazione della polio rappresentano una delle priorità e il target è rappresentato dai quasi dieci milioni di bambini di età inferiore ai cinque anni che rimangono la fascia più vulnerabile della popolazione”, spiega Fiorino. “Nel 2017 e 2018 l’Italia – aggiunge la dirigente di Aics – ha contribuito a questa iniziativa ed ha erogato alle due Agenzie internazionali coinvolte un contributo complessivo pari a 4.5 milioni euro per contribuire al programma di eradicazione della polio: 1,25 milioni rispettivamente a Unicef e Oms in Afghanistan, e 1 milione ciascuno alle due Agenzie in Pakistan”.

Le prospettive, per adesso, in attesa di capire quale sarà esattamente l’atteggiamento dei talebani rispetto ai progetti multilaterali, non sembra essere cambiata. “Nel 2020 – afferma Fiorno – la Gpei ha lanciato una revisione della strategia per l’eradicazione della polio. I partner e le parti interessate hanno identificato collettivamente gli ostacoli rimanenti all’eradicazione della polio, al fine di informare un piano rivisto e rafforzato. Hanno poi sviluppato approcci ottimali per raggiungere l’obiettivo, adattati al contesto sanitario globale e basati sulle lezioni apprese”.

Clima

Accanto alla grave situazione sociale il paese è fortemente esposto ai rischi dei cambiamenti climatici. Secondo Undp “nel corso dei prossimi 40anni, si prevede una diminuzione delle precipitazioni e un aumento delle temperature medie fino a 4°gradi rispetto al 1999. È probabile che la siccità diventi la norma entro il 2030, portando al degrado del suolo e alla desertificazione”. Circa l’80% degli afghani dipende dall’agricoltura alimentata dalla pioggia e dal pascolo del bestiame per il proprio reddito, entrambi minacciati dall’aumento delle temperature e dalle piogge irregolari. In questi mesi nelle regioni nord occidentali una dura siccità sta colpendo allevatori e agricoltori, la seconda siccità prolungata in tre anni, con impatti gravi sulla sicurezza alimentare. Secondo il World Food Program (Wfp) il 40% dei raccolti è andato perso, il prezzo del grano è aumentato del 25% e le scorte di cibo dell’agenzia umanitaria dovrebbero esaurirsi entro la fine di settembre.

A vedere tutti i dati ambientali e i mancati progressi negli indicatori ambientali degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile è corretto ipotizzare che l’Afghanistan incarni una nuova specie di crisi internazionale, dove i rischi della guerra si scontrano con i rischi del cambiamento climatico. In questo modo una popolazione già vulnerabile rischia di esserlo ancora di più, accelerando processi di radicalizzazione e sostegno a frange come Isis-K. “La guerra ha esacerbato gli impatti del cambiamento climatico. Per dieci anni, oltre il 50 per cento del bilancio nazionale è andato per la difesa militare e non quella ambientale”, ha dichiarato al Nwe York Times, Noor Ahmad Akhundzadah, professore di idrologia all’Università di Kabul. “Ora non c’è governo e il futuro non è chiaro. La nostra situazione attuale è disperata”.

 

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