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Ascoltare le società africane, chiave di volta per la cooperazione

Un'Africa che cambia, e con lei la domanda di cooperazione, e poi gli effetti della pandemia e un'Europa che deve mettersi in contatto con intellettuali ed esponenti della società civile del continente. A Oltremare ne parla l'economista camerunense Eugene Nyambal

Parla di economia con la facilità e l’autorevolezza dell’ esperto. E lo è. Eugène Nyambal, scrittore , universitario ed esperto delle questioni economiche è stato a capo della strategia per i paesi emergenti in America Latina all’interno del gruppo della Banca mondiale. Ex consigliere principale dell’amministratore per l’Africa presso il Fondo monetario internazionale ( Fmi) era responsabile dell’assistenza ai governi africani nella conduzione dei negoziati con l’Fmi e della difesa della loro causa dinanzi al Consiglio di amministrazione dell’organismo. Ha poi coordinato la missione della Banca mondiale nel ruolo di responsabile per lo sviluppo del settore privato per vari paesi emergenti come Ruanda, Senegal e Benin. Vincitore del Premio “Private Sector Development Exchange” assegnato dal Presidente della Banca Mondiale nel 1998, questo ex dirigente del gruppo Thomson – Csf è stato anche insegnante alla Business School di Parigi ed è autore di numerose pubblicazioni su riviste specializzate, nonché sulla stampa nazionali e internazionali sui temi dello sviluppo. Oggi vive in Costa d’Avorio dove lavora come consulente per vari governi. A ottobre è stato ospite del webinar Aics “Quale partenariato per l’Africa?”.

Eugene Nyambal

Prof Nyambal, cosa si dovrebbe fare, secondo lei, per rendere più efficiente il partenariato Italia – Africa?

Per rendere il partenariato tra l’Africa e l’Italia il più efficace possibile, bisogna rinforzare il dialogo con i governi, gli intellettuali e la società civile al fine di comprendere meglio i bisogni degli Africani e coinvolgere il settore privato. Dal momento che iniziano ad essere ripensate le catene di valori a livello mondiale, con forti pressioni per la rilocalizzazione e con l’Africa che diventa sempre di più un mercato in continua crescita, è auspicabile che l’Unione Europea (Ue) e l’Italia cambino la loro visione. Devono spostarsi da una visione umanitaria, ‘giudaico-cristiana’ e della cooperazione ad una logica di vero partenariato economico win-win con l’Africa, continente alle porte dell’Europa e ultima frontiera del capitalismo moderno. La cooperazione  deve diventare meno burocratica, più strutturata e orientata verso la produzione del settore produttivo e la messa in opera di sistemi per lo sviluppo del capitale umano. In effetti, la crisi demografica in Europa e l’esplosione demografica in Africa costituiscono un punto di svolta strategica e storica di cui conviene approfittare per creare una zona di reciproca prosperità. Tutte le altre strategie sono illusorie.

Al fine di realizzare questo obiettivo, conviene trovare rapidamente dei punti di convergenza tra, da un lato, la zona di libero scambio continentale (Zleca), messa in atto dall’Unione Africana al fine di rinforzare l’industria e gli scambi all’interno del continente e, dall’altro, gli accordi di partenariato economico tra i Paesi africani e l’Ue, che permetteranno a quest’ultima di continuare a riversare nelle vecchie colonie i prodotti manifatturieri della madrepatria a fronte dell’esportazione di materie prime, catturando così il dividendo demografico dell’Africa e il suo potenziale di crescita e di creazione d’impiego. La popolazione del continente passerà da 1,34 miliardi su una popolazione mondiale di 7, nel 2020, a 2,5  su 9 miliardi nel 2050 (circa il 26 per cento del totale). Sarà una popolazione per lo più giovane e urbanizzata, e ciò rappresenta un’opportunità storica ma anche un rischio maggiore che riguarda i problemi sociali e i flussi migratori se l’Africa non arriverà a creare posti di lavoro sufficienti per i giovani. Per quanto riguarda i Paesi africani, conviene da subito creare le condizioni necessarie per mettere in sicurezza gli investimenti.

Trattandosi dell’Italia e dell’Europa, è indispensabile reindirizzare l’aiuto pubblico allo sviluppo verso il sostegno al settore produttivo dell’Africa e di mobilitare dapprima i capitali pubblici e privati verso la creazione di beni, servizi e infrastrutture che corrispondano meglio ai bisogni dei mercati africani. Gli africani non vogliono più aiuti solo umanitari volti a produrre tonnellate di rapporti spesso anche poco proficui. Piuttosto si augurano di avere degli aiuti che abbiano un impatto sulle loro condizioni di vita quotidiane. Vogliono degli scambi e dei partenariati con le imprese, le università, gli ospedali, le città, gli ingegneri, gli agronomi e tecnici capaci di aiutarli ad accrescere la produzione agricola, trasformarla in prodotti finiti, gestire la catena logistica dalla produzione al mercato, migliorare i servizi, essere formati, far funzionare le aziende, costruire e mantenere macchine e infrastrutture. Attraverso la sua storia, la sua cultura e il suo senso dell’innovazione, l’Italia ha in Africa importanti risorse, ossia un tessuto economico basato principalmente su Pmi familiari come l’Africa, nonché un mix tra il know-how del Nord Italia e la flessibilità del Sud del Paese. Alla fine del XIV secolo, Venezia, Firenze, Genova hanno creato il capitalismo moderno attraverso il commercio. Da allora, il centro del mondo si è spostato dal Mediterraneo all’Atlantico e al Pacifico. Oggi, la storia chiama italiani ed europei a fare del Mediterraneo un mare di speranza e di co-prosperità.

L’Italia poi dal canto suo, può anche condividere con l’Africa la sua esperienza e competenza sulla creazione di distretti industriali integrati o cluster industriali di PMI-PMI familiari che hanno consentito al Paese di sviluppare industrie tradizionali negli anni ’70 (tessile-abbigliamento, pelle, gioielleria, agroindustria, arredamento, materiali da costruzione) o più moderne (piccola meccanica, elettrotecnica, macchine utensili, pezzi di ricambio, elettrodomestici, ecc.) o realizzare azioni mirate su promettenti catene del valore in Africa (distribuzione – centri commerciali, agroindustrie, lavorazione del legno, infrastrutture e gestione urbana, montaggio di macchinari, attrezzature agricole, ecc.).

Quali sono, secondo lei, i settori di investimento in cui i Governi africani hanno fallito a scapito del benessere delle persone e delle loro prime necessità?

Sebbene abbiano un enorme potenziale, la maggior parte dei Paesi africani non ha né creato le condizioni né effettuato gli investimenti necessari per migliorare il benessere della popolazione, poiché ancora dipendono dal pensiero e dall’azione esterna per il loro sviluppo e la loro influenza economica, sociale e culturale. Per svilupparsi, devono rompere con lo spirito di dipendenza e riappropriarsi della capacità di progettarsi nello spazio e nel tempo. Infatti, l’esperienza storica in Europa, Asia e nel resto del mondo mostra che lo sviluppo è un fenomeno endogeno.  Quando si tratta di migliorare il benessere delle persone, la maggior parte dei governi africani ha molti punti deboli. In primo luogo, c’è l’incapacità di basare la legittimità politica e il contratto sociale sul miglioramento del benessere della popolazione.

C’è poi una rinuncia degli Stati o meglio un subappalto della funzione di organizzazione della vita economica e sociale ai donatori. Infatti, l’assenza di regolamentazione dei servizi pubblici privatizzati (acqua, elettricità, telecomunicazioni, porti, aeroporti, sanità, istruzione) nonché le disfunzioni nei principali mercati di beni, servizi e lavoro sotto l’egida del Fmi e la Banca Mondiale ha portato alla creazione di “risparmi da casinò” e ad un insopportabile aumento del costo della vita, in particolare per i gruppi più vulnerabili. La maggior parte dei servizi citati sono più costosi in Africa che altrove.  Terzo, le economie estrattive (materie prime, fuga di capitali e rimpatrio dei profitti) non consentono l’avvio del circolo virtuoso tra consumi, investimenti e occupazione. Infine, lo sviluppo del capitale umano in grado di sostenere i cambiamenti strutturali dell’economia è stato trascurato dall’ingresso dei Paesi africani nei programmi cosiddetti ‘di aggiustamentoì degli anni ’80.

Dal punto di vista economico quale è stato l’impatto della pandemia in Africa e quali sono i Paesi più colpiti rispetto ad altri?

La crisi del Covid-19 può rappresentare un’opportunità per intraprendere una riflessione rigorosa sulla ricostruzione di catene di valore che rispondano meglio ai bisogni dei mercati nazionali e regionali, e per mettere in piedi dei sistemi di istruzione, di salute e di protezione sociale più resilienti e di reti sociali in grado di proteggere i più vulnerabili.

Con il webinar del 23 ottobre scorso a Blue Sea Land, l’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo ha voluto dare voce agli intellettuali africani in quanto protagonisti del loro sviluppo. Che tipo di ascolto ha trovato lei, in generale, nel mondo occidentale?

Penso che si tratti di un’eccellente iniziativa. Ho apprezzato particolarmente la qualità degli interventi e la capacità di ascolto dei miei interlocutori. Sarebbe auspicabile che queste iniziative siano più frequenti e aperte non solo agli intellettuali ma a tutti gli altri attori della società civile, dei media, del mondo economico, culturale e artistico, che possono apportare il loro contributo per migliorare la cooperazione tra l’Africa e l’Italia.

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