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Padre Ivardi, il direttore di ‘Nigrizia’: “Sarà il 2020 delle africane”

Alaa, Melissa e le altre (rivoluzionarie). Volti nuovi di un continente che i media raccontano poco. E senza capire la cooperazione allo sviluppo

“Vedo un anno di speranza e novità, con le donne e i giovani sempre più in prima fila, pronti a impegnare se stessi, mettendoci il corpo e la vita”. Padre Filippo Ivardi è il direttore di Nigrizia. È tornato in Italia dopo dieci anni in Ciad per assumere la guida della rivista dei comboniani, fondata nel 1883 e dedicata al “mondo nero”.
In missione, ad Abeché, nel Sahara, un mare di sabbia musulmano con piccole isole cristiane anche a 500 chilometri di distanza, ha conosciuto la povertà materiale dei villaggi e vissuto nel quotidiano il valore del dialogo interreligioso. “Spesso, per provocazione, dico che i musulmani non esistono” sorride: “Esistono Ibrahim, Aamir e Jalal, esistono le persone”. Capirlo, anche per padre Ivardi, che ora ha 45 anni, è stato un cammino lungo. Cominciato mentre a Padova, dopo la laurea in Ingegneria gestionale al Politecnico di Milano, stava seguendo progetti di microcredito per la Banca etica. Un ruolo l’hanno avuto pure un master per la cooperazione internazionale a Napoli e, in una famiglia benestante che ha saputo investire sui valori, uno zio missionario in Madagascar per oltre 50 anni. “Ha fondato cento scuole” sorride padre Ivardi, ritornando alla sua missione nuova, con Nigrizia, come dire il giornalismo dalla parte del Sud del mondo.
Con Oltremare parla del 2020 che sarà, partendo da immagini che sono rimaste impresse negli occhi e nella memoria dell’anno ormai alle spalle. Cita Alaa Salah, la studentessa 22enne che in una primavera sudanese ha guidato i canti contro il generale-dittatore Omar Hassan Al-Bashir in piedi sul tetto di un’automobile; o Melissa Ziad, la ballerina algerina ritratta in piazza sulle punte, la bandiera bianco-verde con la mezzaluna rossa alle spalle, come a dire la precarietà di un Paese in cerca di equilibri nuovi. Scatti che si sono aggiunti a quelli di altre donne, africane o afroamericane, come Ieshia Evans e Patricia Okoumou, pronte a fronteggiare la polizia al tempo di Donald Trump e ad arrampicarsi fin sulla Statua della libertà. Vada come vada, la rivoluzione sarà donna, suggerisce padre Ivardi, aggiungendo: “Avrà vent’anni o poco più”.

Direttore, da dove nasce la speranza di un futuro migliore?

“Dal fatto che sui social le informazioni si diffondono come un contagio, che non ha però niente a che vedere con la nuova emergenza del coronavirus: ha un effetto positivo, come di risveglio o rinascita. L’esperienza dell’Algeria ad esempio sta contagiando altre realtà africane, come il Marocco o l’Egitto, dove sono tornate le piazze. E ci sono i giovani, tante donne e tanti ragazzi pronti a impegnare se stessi, mettendoci il corpo e la vita. Si sono riattivati i movimenti sociali in Congo e anche in Uganda ci sono segnali di cambiamento: lo conferma la vicenda di Bobi Wine, un oppositore che non demorde nonostante gli arresti e le torture, soprannominato il ‘presidente del ghetto’, sempre più figura di riferimento per i giovani anche in vista delle elezioni del prossimo anno. C’è una nuova generazione africana divenuta forza trainante, che non punta su singole personalità ma piuttosto su un “noi”, come testimonia il movimento Hirak, che in Algeria ha superato ormai la cinquantesima settimana di proteste”.

 

 

Che ruolo può avere, in questo contesto, nella prospettiva di Nigrizia, la cooperazione allo sviluppo?

“Sul nostro giornale ci siamo sempre posti in modo critico rispetto alle politiche dei governi, anche sul tema dei cosiddetti Aiuti pubblici allo sviluppo. Nigrizia continuerà a essere un pungolo, evidenziando che la cooperazione vera è quella dei cittadini africani che vivono al di fuori del continente e mandano a casa rimesse miliardarie. Sul ruolo degli aiuti governativi credo serva una riflessione articolata: da un lato, c’è la diminuzione degli stanziamenti; dall’altro, le vere e proprie criticità di alcuni programmi. Nell’ultimo numero di Nigrizia abbiamo messo in evidenza il caso della cooperazione dell’Ue con il Marocco, che sembra aver dato davvero pochi risultati. Oggi vedo una linea netta di demarcazione tra un sistema in difficoltà e un altro più autentico, solidale e informale, imperniato sui popoli. Un sistema che peraltro smonta lo slogan dell’Aiutiamoli a casa loro: ad aiutarli, infatti, sono i loro stessi familiari”.

L’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo ha investito sulle comunità di origine straniere, anche attraverso un progetto specifico, il Summit nazionale delle diaspore…

“Sì, ma poi il governo cosa fa? Sostiene regimi economici e grandi imprese che fanno nel concreto la politica estera e agli aiuti allo sviluppo lasciano solo briciole. Dobbiamo allora andare al cuore del problema e non limitarci a mettere un po’ di vernice, magari per avere la coscienza a posto”.

A una riflessione sulla cooperazione possono contribuire narrative nuove?

“Credo che serva anzitutto più attenzione per l’Africa, anche quella in apparenza meno direttamente legata agli interessi italiani. Da noi si parla di Libia per il nostro coinvolgimento politico-diplomatico, per i militari di stanza a Misurata, per i pozzi di petrolio e per le partenze dei migranti. Non si racconta invece – e qui interviene Nigrizia – di situazioni altrettanto critiche sotto il profilo della pace e dei diritti umani. Penso alla Repubblica Centrafricana, di cui ci siamo occupati a dicembre con servizi dedicati all’intrecciarsi degli interessi stranieri, o alla Guinea, dove la gente manifesta per la democrazia e la polizia risponde sparando ad alzo zero. Bisognerebbe guardare più in profondità, cogliendo le fatiche e le speranze di un continente intero, per altro in rapida evoluzione”.

Un ultimo spunto, ancora sulla cooperazione. Su quali aspetti si dovrebbe puntare di più?

“Un riferimento importante è l’enciclica di Papa Francesco Laudato si’, con al centro il tema dell’ecologia integrale. Penso anche al Sinodo dell’Amazzonia, che si è tenuto a ottobre: è nato dal grido dei popoli e della Terra. Il tema dell’ecologia integrale tocca il nostro stile di vita, il nostro modo di abitare il Pianeta. Non dobbiamo correre il rischio di rinchiuderci in una vita sempre più isolata e sempre meno propositiva”.

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