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Per una cooperazione che valorizzi l’energia positiva dell’Africa

Secondo Marco Trovato, direttore di Africa Rivista, troppo spesso si è abusato di cliché e immagini stereotipate che hanno nuociuto al continente e alla stessa cooperazione

“Prendi un giornale o guarda la tv. Oppure prendi anche le campagne comunicazione di alcune ong. Vedrai un’Africa che non è quella che conosco, quella che da 30 anni seguo andando sul posto e dirigendo la rivista Africa”. Marco Trovato, il volto ancora abbronzato dall’ultimo viaggio (“sono rientrato da poco dal Congo”), sottolinea come anche una parte del mondo della cooperazione a suo parere abbia abusato di cliché e immagini stereotipate che hanno nuociuto all’Africa e agli stessi attori che quelle immagini promuovevano. “In una sorta di gioco al rialzo, l’impressione è che spesso si è andati oltre il limite, anestetizzando l’opinione pubblica e ottenendo risultati anche contrari agli obiettivi iniziali”.

Un’analisi impietosa. Non c’è il rischio di generalizzare troppo?
Immagino che anche il mondo della cooperazione debba porsi – in parte lo ha già fatto – l’obiettivo di guardare all’Africa e di veicolare un’immagine dell’Africa in maniera diversa. Nel senso che non mi sfuggono le ragioni per cui un’organizzazione che lavora nel campo umanitario o dello sviluppo debba e voglia innanzitutto mettere in risalto quelle che sono le fragilità, le problematiche che una società ha e che legittimano interventi della cooperazione per risolvere quei problemi. Ma a mio modo di vedere dovremmo far tutti uno sforzo mettendo in luce, accanto alla denuncia del problema, quelle che sono le risorse di questo continente. Wole Soyinka, scrittore nigeriano premio Nobel per la letteratura, parla dell’Africa come la più straordinaria fonte di energia non ancora sfruttata nel mondo. Soyinka non si riferisce alla quantità di ricchezze, di idrocarburi e metalli strategici del continente, ma si riferisce anzitutto ai giovani dell’Africa, queste generazioni assetate di riscatto che continuiamo colpevolmente a ignorare.

 

 

Quale dovrebbe essere allora il ruolo della cooperazione?
Penso che la cooperazione debba anzitutto valorizzare questa energia positiva di cui parla Soyinka, questa voglia di emergere fortissima che c’è nei giovani dell’Africa. E penso che sia interesse di tutti metterla in luce, raccontarla, narrarla perché è la leva più efficace che possono avere anche gli operatori della cooperazione per avere successo. In sostanza l’Africa non ha bisogno di tecnici staccati dal contesto, ancor meno di filantropi benefattori, ha bisogno di partner che individuino le risorse di quelle società come collaboratori fondamentali per lo sviluppo economico e sociale.

Quindi mostriamo queste risorse accanto ai problemi.
Troppo spesso il mondo della cooperazione si è reso responsabile con campagne di informazione e comunicazione – generalizzo per forza di cose, non tutte le ong e non tutto il mondo della cooperazione hanno lavorato con la stessa sensibilità – che hanno teso a enfatizzare gli aspetti più pietistici dell’Africa: le emergenze, i bambini con il ventre gonfio, immagini che non ci si riesce a scrollare di dosso. Alla lunga, però, sono immagini che anestetizzano l’opinione pubblica, che non ci fanno più effetto. Il risultato è stato vedere altre campagne in cui si è alzato il livello dello shock, l’asticella delle immagini più crude. A mio parere la cooperazione non ha bisogno di questo e penso che il mondo dell’informazione e della cooperazione condividano la responsabilità di mostrare un’Africa più vitale, più reattiva, che non attende l’aiuto in maniera passiva, ma che è un partner fondamentale per avere successo.

Questo è un po’ il motivo del sottotitolo della vostra testata, ‘Vivere il continente vero’?
La peculiarità della nostra rivista – fondata dai Padri Bianchi quasi cento anni fa – è proprio quella di frantumare i luoghi comuni, i pregiudizi con cui siamo soliti pensare all’Africa e alle sue genti. Per cui con il sottotitolo della rivista abbiamo voluto ‘giocare’ con il refrain del continente nero che porta con sé sempre una connotazione negativa e disintegrare questa immagine dell’Africa come continente delle emergenze continue… che purtroppo continua in virtù soprattutto delle notizie così come vengono diffuse e filtrate dai grandi media.

Non c’è il rischio di cadere nell’errore opposto?
La nostra missione è quella di raccontare un’Africa diversa, un’Africa vitale, reattiva, un’Africa che malgrado i problemi che ha – i conflitti, le contraddizioni, i contrasti che non solo non ignoriamo ma cerchiamo di raccontare al meglio – è un continente di prorompente vitalità. Ed è un continente non solo proiettato nel futuro, ma protagonista dei tempi che viviamo. Sono tempi che noi vogliamo raccontare con il nostro stile, la nostra sensibilità, la nostra prospettiva, che è diversa dal mainstream perché non ci accontentiamo di riscrivere i lanci di agenzia o di riprendere le notizie che vengono diffuse dai mezzi di larga diffusione o dalle televisioni. Noi in Africa ci andiamo, con corrispondenti, inviati… andiamo a cercare quell’Africa che ancora nessuno ha raccontato e che invece aspetta di essere raccontata. L’Africa della società civile, degli imprenditori, delle start-up, degli artisti, degli uomini di cultura, insomma un’Africa che sia meno dannata, sia meno scontata, meno banale di quanto vogliano farci credere. E questo non significa dimenticare le crisi, le difficoltà e le contraddizioni del continente.

In questo senso, un grande conoscitore del continente era Raffaele Masto, che purtroppo il virus ha portato via lo scorso marzo. La morte di Raffaele per noi è una perdita enorme. Raffaele è stato per 30 anni un amico fraterno, un pilastro della rivista oltre che un reporter di Radio Popolare. Raffaele è stato uno dei più straordinari narratori di questo continente. Le notizie le andava a cercare sul posto, frequentava l’Africa, amava viaggiare ed era un attento osservatore. Raffaele Masto ha documentato e ci ha raccontato da vicino le grandi giravolte della storia contemporanea africana, lo ha fatto sempre con analisi molto lucide e lungimiranti. Ma forse il merito più grande di Raffaele è stato quello di raccontarci nei suoi reportage, nel blog che curava per la rivista, nei suoi libri, l’Africa che non fa notizia, ovvero l’Africa della quotidianità. Un po’ come ha fatto negli anni ‘70 e ‘80 Ryszard Kapuscinski, da corrispondente dell’agenzia di stampa polacca.

 

Questo racconto dell’Africa regge anche di fronte all’attuale pandemia globale di covid-19?
Non sappiamo cosa accadrà nelle prossime settimane, nei prossimi mesi: c’è chi come l’Oms ci avvisa di prepararci al peggio, ci auguriamo che queste previsioni siano eccessive, che i sistemi immunitari degli africani siano più attrezzati… al netto della problematica sanitaria, emergono evidenti quelli che sono i problemi sociali ed economici che la pandemia porta con sé. I governi nella gran parte dei casi si sono mossi in maniera responsabile, puntuale, verrebbe da dire più reattivi di tanti governi occidentali.
Poi bisogna essere onesti fino in fondo e dire le cose come stanno: concetti come distanziamento sociale o quarantena o blocco delle attività in contesti urbani dove magari milioni di cittadini vivono con attività sulla strada, piccoli commerci, mestieri a giornata (il cosiddetto settore informale) sono inapplicabili, significano condannare alla fame. Così come suona come una condanna dire di stare in casa rinchiusi e non uscire a milioni di persone che abitano nelle baraccopoli dove magari cinque, sei, dieci persone condividono cubicoli di pochi metri quadri. Molte di queste disposizioni, corrette dal punto di vista formale, diventano problematiche da applicarsi in parecchi contesti.

Preoccupano anche i contraccolpi economici della pandemia.
Già oggi vediamo questi contraccolpi: il rallentamento globale dell’economia, con una contrazione dei consumi enorme a livello mondiale, con un forte rallentamento della crescita della Cina, dell’Europa, degli Stati Uniti, si traduce in un calo nella richiesta di commodities, di metalli, di idrocarburi, i cui prezzi a livello internazionale stanno crollando. Ciò naturalmente provoca ripercussioni su quei Paesi che galleggiano sulle esportazioni di questi minerali e idrocarburi. Paesi che si trovano in grosse difficoltà. Così come pesanti conseguenze avrà lo svuotamento del volume delle rimesse dei migranti, che necessariamente tenderanno a diminuire perché milioni di persone in tutto il mondo perderanno il posto di lavoro o dovranno attraversare un periodo di insicurezza.
Tutto questo deve spingerci a ripensare questo modello economico, che è un modello estremamente fragile. Altrimenti i problemi saranno elevati: prevedo tensioni sociali, scontri, problematiche di ordine pubblico che i governi africani dovranno affrontare. Perché come sempre le conseguenze di queste crisi le pagano i più poveri. Ha ben detto il missionario comboniano padre Kizito Sesana che è un corrispondente della rivista Africa da Nairobi: questa pandemia ci mostra e ci ricorda come siamo tutti sulla stessa barca, però – ha tenuto a sottolineare Kizito – alcuni hanno i remi e altri no; alcuni hanno i mezzi per affrontare la tempesta e uscire dalla crisi, altri sono più vulnerabili.

 

 

Ha parlato di diaspore, un tema la cui portata è molte volte sottostimata. A suo parere possono dare un contributo di conoscenza e rappresentare un efficace ponte di comunicazione e sviluppo tra le due sponde?
Le diaspore rappresentano un soggetto imprescindibile per chi vuole fare cooperazione. Già oggi, lo dicono i dati, il volume di rimesse inviate dalla diaspora africana ai propri Paesi di origine supera il volume di investimenti nella cooperazione allo sviluppo. E queste rimesse spesso sono risorse vitali per le comunità e sono risorse investite per promuovere esse stesse sviluppo. Se c’è una persona che sa dove investire soldi in Africa, è l’immigrato, perché conosce meglio di tutti il territorio, ne conosce le fragilità ma anche le dinamiche.

Se le diaspore sono attori su cui la cooperazione dovrebbe puntare, quali sono gli altri?
Gli imprenditori. In base alla mia esperienza, accanto a gente avida e corrotta che vedeva nell’Africa territori da saccheggiare e negli africani persone da sfruttare, ho visto anche una gran parte di investitori, piccoli e medi, che operavano e operano con senso di responsabilità, promuovendo lo sviluppo sociale ed economico, distribuendo redditi, garantendo diritti sociali, diritti sindacali, promuovendo lo sviluppo di intere comunità e territori. Non ho mai creduto alla favoletta del cooperante che fa del bene e dell’imprenditore che si approfitta dell’Africa. L’essenza la fanno le persone, le sensibilità, l’etica con cui ci si muove.
Penso che sia doveroso per chi faccia cooperazione individuare anche nel mondo del profit quegli interlocutori – e sono tanti – che fanno già grandi cose e questa alleanza, che tra l’altro è contemplata anche dalla nuova legge sulla cooperazione, è dal mio punto di vista strategica, fondamentale. Il problema è che ci si guarda spesso reciprocamente con diffidenza: il mondo dell’imprenditoria guarda con diffidenza il mondo delle Ong perché le considera autoreferenziali, poco efficienti, emblema di sperpero di denaro pubblico; viceversa, il mondo della cooperazione – e ripeto sto sempre generalizzando – guarda con diffidenza il mondo profit perché lo considera popolato da personaggi avidi che pensano soltanto ad arricchirsi, allo sfruttamento, al costo della manodopera. Sono in entrambi i casi visioni distorte, visioni che non fanno bene: bisogna imparare a conoscersi, a frequentarsi, e soltanto attraverso questa frequentazione e questa conoscenza possono nascere basi per una cooperazione di tutti e per tutti.

 

Biografia
Gianfranco Belgrano
Nato a Palermo nel 1973, Gianfranco Belgrano è un giornalista e si occupa soprattutto di esteri con una predilezione per l’Africa e il Medio Oriente. È direttore editoriale del mensile Africa e Affari e dell’agenzia di stampa InfoAfrica, per i quali si sposta spesso nel continente africano. Ha studiato Storia e Lingua dei Paesi arabi e vissuto per alcuni anni tra Tunisia, Siria e Inghilterra prima di trasferirsi a Roma. Ha lavorato o collaborato con varie testate (tra cui L’Ora ed EPolis) e si è avvicinato all’Africa con l’agenzia di stampa Misna, lasciata nel 2013 per fondare con alcuni amici e colleghi il gruppo editoriale Internationalia.
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