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La pace dopo la tempesta

Perché cambiamenti climatici e degrado ambientale causano crisi economiche, squilibri sociali e conflitti. A colloquio con Grammenos Mastrojeni, Coordinators per l'Ambiente alla Farnesina

“Madre Natura è sufficientemente generosa per provvedere al bisogno di tutti, ma non all’avidità di pochi”
-Mahatma Gandhi

La tutela dell’uomo e la tutela dell’ambiente sono alla base della pace e l’una non si persegue a discapito dell’altra, bensì si conseguono insieme in modo armonico. Allo stesso modo, instabilità, conflitti e degrado ambientale sono interconnessi, questo in sintesi il pensiero di Grammenos Mastrojeni. Cita spesso Wangari Maathai, ambientalista keniana, che nel 2004 vinse il Nobel per la Pace per il suo contributo “ alle cause dello sviluppo sostenibile, della democrazia e della pace”. Cosa aveva fatto? Insieme alle donne africane aveva piantato 40 milioni di alberi di acacie in Africa centrale, contrastando deforestazione ed erosione del suolo. Aveva capito la complessità del problema fin dall’inizio, Wangari quando affermava: “Senza quel polmone verde avremo un cambiamento climatico radicale e pericoloso in tutto il pianeta”.

Wangari Maathai

In passato il nesso fra pace e ambiente non è stato però così scontato e non sempre è emerso dal dibattito di approccio esclusivamente scientifico. Nelle istituzioni il fenomeno è stato affrontato nel suo duplice aspetto alla Direzione generale della cooperazione allo sviluppo del Ministero degli Esteri dove opera Grammenos Mastrojeni come Coordinatore per l’Ambiente. Da oltre vent’anni lavora allo studio e alla divulgazione di tematiche ambientali attraverso un’attenta analisi scientifica e politica al tempo stesso. I suoi studi sono sintetizzati in diverse pubblicazioni di cui la più recente, “Effetto serra , effetto guerra”, spiega già nel titolo l’allarmante urgenza del problema.

Dopo “L’Arca di Noé ” (Chiarelettere, 2014) e rivolto agli addetti ai lavori, “Effetto serra , effetto guerra” (Chiarelettere 2107) si rivolge a cittadini, studenti, insegnanti a lettori “comuni” che vogliono capire l’origine di nuove guerre, conflitti e fenomeni migratori che potrebbero assumere portata epocale. Fra le cause, una in particolare : il riscaldamento globale.

Emergenza Sahel

Come nasce il suo ultimo saggio “Effetto serra , effetto guerra”?

Dalla necessità di far capire a un pubblico più ampio che il degrado ambientale non riguarda solo l’ ambiente ma che rende tutto il nostro sistema più imprevedibile. E quando non c’è la prevedibilità dei cicli della natura non si riesce a organizzare le attività produttive, sociali ed economiche. Le società piu fragili entrano allora in disordine e destabilizzazione con conseguenze gravi. Il degrado ambientale amplifica fenomeni di destabilizzazione, conflitti e terrorismo e rende impossibile raggiungere un clima e un ambiente che rimangano sufficientemente stabili per l’intera comunità: crea un circolo vizioso che colpisce i più poveri per primi ma mette a rischio tutti sul pianeta.
Se i più colpiti sono i paesi poveri, essi vengono destabilizzati e così non sono più in grado di curare il loro territorio e ambiente – a causa dell’emergenza non possono pianificare il domani e sono spinti a predare l’ambiente. Peggiora quindi il degrado ambientale e il cambiamento climatico, e il circolo vizioso ricomincia amplificato a ogni passaggio.

Tutto questo non riguarda solo quei Paesi, ma mette in pericolo il futuro di tutti perché quantitativamente non è possibile restare sotto i 2 gradi se non si mette a contribuzione anche il ruolo dei PVS. Se loro non possono farlo noi non raggiungeremo l’obiettivo di stare sotto i 2 gradi , con gravi ripercussioni.

Per molto tempo si è pensato che i danni dei cambiamenti climatici riguardassero solo i paesi lontani, le zone estreme… Sembrava che l’Europa fosse esente da rischi: cosa è successo?

L’Europa è un “continente artificiale”, geograficamente non è separata dall’Asia. La sua identità si fonda su una favorevolissima peculiarità climatica: un’area temperata di stabilità ambientale che, in continuità con ilò bacino mediterraneo, ha creato il contesto favorevole per la rivoluzione agricola che, circa 10.000 anni fa, ha dato avvio all’organizzazione umana che conosciamo. Certo, non perderemo l’identità europea, ma ora entriamo anche in una nuova comunità di interessi: da quando all’ anticiclone delle Azzorre si è sostituita l’influenza sull’Europa meridionale dell’ anticiclone tropicale del Sahara stiamo entrando in un “nuovo club” che condivide le dinamiche delle aree a sud del Mediterraneo. Fa un’enorme differenza e già spiega perché costruire muri è come separarsi dal resto della propria famiglia. Sarebbe come mettere un coperchio sulla pentola a pressione che prima o poi esplode. L’instabilità ribolle e rende impraticabili quei mercati e quelle relazioni che però sono il più naturale asse di condivisione ed espansione della nostra stessa economia, cultura e identità: possiamo aspettarci consistenti perdite non solo per l’Italia – perché l’Italia è la porta d’ingresso, il ponte sul Mediterraneo – ma per l’Europa che si frammenterebbe con muri successivi anche al proprio interno. Una stima prudente punta a una perdita di Pil, italiano ed europeo, attorno al 10%.

Wangari Maathi diceva ” There are opportunities even in the most difficult moments”. Qual è la prima opportunità da cogliere in questo momento?

È il co-sviluppo sostenibile di cui parla l’Agenda 2030 : possiamo costruire meccanismi che creano co- sviluppo, anche attraverso la tutela dell’ambiente che si può trasformare in fonte di reddito. Funziona così, ad esempio, l’ecoturismo; non solo diamo una ragione concreta per proteggere l’ambiente – ci rende ricchi – ma con un’ opportunità di reddito rafforziamo la stabilità di aree in espansione economica , ma ne diventiamo anche partner e costruiamo una comunità di interessi che produce pace invece di illegalità. Non c’è perdita di Pil , ma c’è una spesa iniziale che viene però recuperata successivamente.

Se facciamo una comparazione abbiamo calcolato che un programma di recupero di tutte le terre degradate del Sahel, accompagnato da sussidi che portino alla scolarizzazione del 50% della popolazione giovane, costerebbe tre miliardi di euro l’anno: tanti, ma si tramuterebbero poi in moltiplicatori del reddito locale e delle nostre possibilità di interagire costruttivamente, con guadagno di tutti e senza assistenzialismi. Invece, se costruiamo i muri, abbiamo potenziali perdite per 110 miliardi di euro. Ad esempio, se operiamo per creare strutture di sostegno alla piccola agricoltura familiare in modo da inserirla anche nel mercato internazionale – in Italia è l’idea di Slow food per esempio – creiamo legami di stabilità e pace e ci guadagnano tutti. La chiusura è una scelta che porta a perdite da entrambe le parti.

Questo potrebbe essere un progetto virtuoso , che indica la via giusta da seguire per il futuro?

Dobbiamo cambiare prospettiva. il riscaldamento globale è percepito come un rischio per la sicurezza alimentare dei più deboli perché rende incerte le stagioni e inaridisce le terre. L’analisi più diffusa ha contorni inquietanti: dar da mangiare a una popolazione mondiale che si avvia ai nove miliardi e mezzo di abitanti nel 2050 e che è sempre più urbanizzata – si sente dire – richiede un aumento della produzione di cibo del 70%, che comporta un ulteriore fabbisogno di energia del 37% e il 55% in più d’acqua consumata. A questo quadro si aggiungono i cambiamenti climatici che esacerbano la fragilità dei suoli. Si profila quindi anche un’ulteriore disastrosa spinta a occupare con l’agricoltura i pochi ecosistemi rimasti intatti. Questa visione si incentra tuttavia su un’agricoltura industriale e di vasta scala che ha sì rendimenti elevati, ma che tende a estromettere i poveri dalle loro piccole fattorie familiari, rendendole marginali e non competitive, e favorendo quindi il “land grabbing”, ovvero il moderno latifondo internazionale per cui Stati e imprese dominanti accaparrano distese sempre maggiori di terreno arabile nei paesi poveri. Si tratta inoltre di un tipo di agricoltura che si nutre di fertilizzanti chimici dall’elevato impatto ambientale e responsabile di circa il 20% delle emissioni di gas serra: una contraddizione fra sviluppo e ambiente che abbiamo accettato in nome dell’abbondanza.

Senonché, le sacche di fame non dipendono dalla mancata abbondanza: produciamo già oggi cibo sufficiente a nutrire oltre 10 miliardi di persone. Il problema è la distribuzione e abbiamo contribuito a crearlo proprio spodestando i più deboli dai loro sistemi produttivi, in nome di un’abbondanza che doveva servire anzitutto a loro ma finisce soprattutto a ipernutrire un Occidente già obeso, cardiopatico e diabetico. Ma non tutta l’agricoltura è così. La piccola agricoltura familiare, specie se condotta con metodi tradizionali attualizzati, ha invece la caratteristica di assorbire carbonio dall’atmosfera in maniera molto efficiente. E la stessa agricoltura favorisce anche la biodiversità; l’equilibrio idrico; la mitigazione locale del clima (la copertura vegetale diminuisce localmente le temperature); il consolidamento comunitario; la creazione di un surplus agricolo da reinvestire nei mercati locali; la libera responsabilità – l’empowerment, come si suole chiamarla – locale, familiare e femminile; l’ancoraggio alle comunità d’origine e un freno alle spinte migratorie. Fornisce inoltre un freno al land grabbing grazie alla riappropriazione delle terre ridivenute produttive, e fa rinascere stili di vita e dimensioni di dignità umana che disinnescano i fanatismi con la nobilitazione e spinta all’ammodernamento dei saperi tradizionali e identitari.

Ogni anno si degradano 12 milioni di ettari di terre. Buona parte è nel Sahel, da dove nascono migrazioni, traffici e terrorismo che coinvolgono anche noi. Lì terre semidegradate sono ampiamente disponibili e recuperare un ettaro per restituirlo alla piccola agricoltura familiare nel Sahel costa in media 130/200 U$: con poche cautele alla portata delle comunità rurali africane si riesce a riattivarne la fertilità. Scopriamo allora che la stessa agricoltura più umana, quella che redistribuisce reddito, sicurezza e dignità, è anche quella che assorbe i gas serra e non in modo marginale: politiche di questo genere, praticate su vasta scala, potrebbero da sole portare un terzo delle riduzioni di emissioni necessarie per evitare la catastrofe climatica. Basta cambiare prospettiva: con un solo gesto di giustizia, possiamo innescare un ciclo di riequilibrio umano e ambientale che offre a tutti orizzonti più sicuri. E costerebbe in totale meno di un decimo della spesa annuale in armamenti.

Non è solo una questione etica: un impegno prioritario in soccorso dei poveri è necessario ed è nell’interesse di tutti – conclude Mastrojeni – La Natura esige giustizia.

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