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Mkwiru, Kwale, Kenya crediti Laura Salvinelli

Economia blu e sostenibilità, dalle alghe del Kenya alla charfiyah tunisina

C’è un’altra Africa sotto il mare e la sfera marittima e acquatica è molto più di un semplice spazio economico: è una tessera essenziale del ricco mosaico geografico, sociale e culturale africano.

Sacchi da cinquanta chili sulla testa delle donne di Mkwiro incedono sotto il sole, dondolano con loro al ritmo dettato da piedi che si fanno strada nell’acqua. Così le alghe appena raccolte vengono portate dal mare alla riva e lì fatte asciugare per un paio di giorni prima di essere vendute a commercianti. “Con le alghe si possono fare tante cose in cucina – racconta Mzungu ad Aics Nairobi – ma con i macchinari adatti si possono ricavare anche saponi”. Mkwiro è un piccolo e colorato villaggio di pescatori di circa mille abitanti sull’isola keniana di Wasini, non lontano dal confine con la Tanzania. Ed è anche in questo piccolo villaggio che è intervenuta l’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo (Aics) attraverso “Go Blue”, un’iniziativa finanziata dall’Unione Europea (cooperazione delegata) e realizzata sul campo da Aics con la collaborazione tecnica di Ciheam Bari.

Il progetto è ampio, è stato avviato nel 2021 e andrà avanti fino al 2024, riguarda tutte le regioni costiere del Kenya e nel suo insieme (con un finanziamento di 24 milioni di euro) vede gli interventi, oltre che di Aics, delle agenzie di cooperazione di Germania, Portogallo, Francia, di due agenzie dell’Onu – Un Habitat e Unep – e del Segretariato Jumuiya Ya Kaunti Za Pwani (Jkp), l’organismo che rappresenta le sei contee costiere del Kenya. L’ufficio Aics di Nairobi è responsabile per la componente di Go Blue destinata alla promozione della crescita economica e al rafforzamento delle filiere dell’economia blu.

Tunisia, crediti Ciheam

Carlos Lopes, economista originario della Guinea Bissau in passato alla guida di Uneca e oggi alto rappresentante dell’Unione Africana per i negoziati con l’Europa, ha descritto molto bene le potenzialità del mondo blu africano, ovvero di un continente fatto di vasti laghi, fiumi e grandi oceani, con 38 dei suoi 54 Stati che hanno sbocco al mare, e alcune delle rotte commerciali più strategicamente rilevanti a livello mondiale che passano proprio al largo delle sue coste.

“In altre parole – ha scritto Lopes – abbiamo un’altra Africa sotto il mare”. La sfera marittima e acquatica è molto più di un semplice spazio economico; è una tessera essenziale del ricco mosaico geografico, sociale e culturale africano. Gli enormi vantaggi ricavabili dall’investire (o dal tornare a investire) nelle aree marine e acquatiche, secondo Lopes, potrebbero spostare l’ago della bilancia continentale da sfruttamento illegale e degrado verso un modello di sviluppo “azzurro” a beneficio dell’Africa di oggi e di domani.

Kenya, crediti Martina Bolognesi

L’economia blu africana, se ben gestita, può divenire una fonte primaria di benessere e spingere con forza le fortune del continente.
Questo è d’altra parte il tasto che vuole spingere Go Blue promuovendo lo sviluppo della filiera della pesca artigianale (ma anche quello della manioca) con interventi a sostegno delle organizzazioni comunitarie che gestiscono la pesca sul piano locale (le Beach Management Units, Bmu), dei piccoli pescatori e delle piccole e medie imprese. Azioni che si concretizzano con attività di formazione condotte da Ciheam Bari, la fornitura di attrezzature ed equipaggiamenti, la costruzione di infrastrutture per la pesca.
Meritano una menzione la fornitura di refrigeratori che i pescatori usano per conservare il pescato una volta catturato e il progetto per introdurre un innovativo sistema di certificazione qualitativa che garantirà il rispetto di più elevati standard nella gestione della pesca.

Nuove frontiere

L’Unione Africana (Ua) ha definito la blue economy la “nuova frontiera del rinascimento africano”, evidenziando lo spazio sempre più centrale che stanno assumendo le aree marine e acquatiche e l’insieme delle attività che in esse si svolgono. L’economia blu è stata infatti inserita tra i punti principali dell’Agenda 2063, quella visione strategica elaborata dall’Ua per sostenere lo sviluppo socioeconomico panafricano dei prossimi 50 anni, in cui si dichiara che per costruire un’Africa prospera la pesca e l’acquacoltura “dovrebbero essere tra i maggiori fattori della trasformazione continentale e dell’accelerata crescita economica”.

Non è un caso, quindi, che pesca e acquacoltura siano parte integrante anche del Programma comprensivo di sviluppo dell’agricoltura in Africa (Caadp) della New Partnership for Africa’s Development, più conosciuta come Nepad, che è la cornice strategica disegnata dall’Ua per portare avanti lo sviluppo. Né che la Commissione economica delle Nazioni Unite per l’Africa (Uneca) pochi anni fa abbia dato alle stampe una pubblicazione intitolata ‘Africa’s Blue Economy: A policy handbook’, letteralmente ‘La Blue Economy dell’Africa: un manuale politico’.

Training a Mombasa, crediti Martina Bolognesi

È forse qui opportuno ricordare che la blue economy non indica in modo esclusivo il settore dell’economia marittima e degli oceani, come sembrerebbe suggerire il richiamo diretto utilizzato dall’Unione Africana nell’Agenda 2063. La blue economy si ricollega piuttosto a un modello di sviluppo sostenibile esteso a tutti i settori che vuole eliminare gli sprechi reimmettendoli (e dandogli pertanto valore) all’interno del sistema produttivo con l’obiettivo di promuovere un processo circolare dell’economia, salvaguardando le risorse e valorizzandone ogni aspetto. Il riconoscimento ufficiale di un simile paradigma da parte dei più importanti organi di governo e d’indirizzo politico africani rappresenta un punto di svolta di enorme importanza. Il contributo della pesca allo sviluppo dell’Africa, in altre parole, non va osservato da un punto di vista soltanto economico. Il pesce è per esempio la principale fonte di proteine animali per circa 300 milioni di persone, il 30% della popolazione di tutto il continente, e occupa quindi un posto di primo piano nel garantire la sicurezza alimentare e la diversificazione delle diete quotidiane. Difficilmente calcolabili sono poi quegli aspetti legati al ruolo che gli ecosistemi marini e acquatici – dagli estuari dei fiumi alle barriere coralline, dalle foreste di mangrovie alle zone umide – hanno per la biodiversità o per proteggere le coste e regolare il clima. Oppure ancora, da considerare è la portata di tutto ciò sulla cultura e le tradizioni delle comunità che abitano lungo le coste del continente. Tradizioni che in alcuni casi sono diventate patrimonio dell’umanità, come la tecnica di pesca usata in Tunisia e nota con il nome di charfiyah.

I programmi di Aics Tunisi

La charfiyah è un labirinto creato piantando nel fondale marino un gran numero di foglie di palma che creano corridoi attraverso i quali, grazie alle correnti, i pesci vengono incanalati alle camere di cattura. Qui, si trovano le trappole piazzate dai pescatori. Le isole Kerkenna sono note per questa particolare tecnica che l’Unesco ha inserito nella lista del patrimonio immateriale dell’umanità. “Una tecnica che risponde ai criteri della sostenibilità e che è legata alle peculiarità del territorio, creando una continuità tra quanto si produce in terraferma e quanto viene dal mare” dice Stefano Carbonara, biologo marino e coordinatore del progetto Nemo Kantara, che la Cooperazione Italiana conduce nelle comunità costiere di cinque governatorati tunisini insieme al Ciheam di Bari e in collaborazione con il ministero dell’Agricoltura e della pesca tunisino.

Tunisia crediti Ciheam

Ma Nemo Kantara, sottolinea a sua volta Stefania Fantuz, responsabile del settore sviluppo rurale di Aics Tunisi, è anche un progetto che sta servendo a fare formazione e creare delle alternative lì dove la pesca ha creato dei danni. Da due anni infatti il governo ha vietato la raccolta delle vongole perché era ormai diventata una significativa fonte di pressione ecologica. Aics e Ciheam Bari si sono quindi attivate per sostenere migliaia di donne che erano dedite a questo tipo di attività, nelle zone di Medenine e Gabes in particolare, creando dei percorsi di formazione per avviare nuove attività e diversificare, co-finanziando le idee ritenute migliori, fornendo attrezzature e dando una speranza a fasce di popolazione fragili rimaste prive di una importante risorsa economica.

Un’altra frontiera nuova è quella degli strumenti finanziari messi a disposizione dei piccoli agricoltori e dei pescatori. Due in particolare i programmi in campo: Prasoc (57 milioni di euro) finanziato direttamente dall’Italia; e Adapt (44,4 milioni di euro) finanziato dall’Unione Europea e gestito da Aics. “Con Prasoc – sottolinea Alessia Tribuiani, responsabile del settore sviluppo economico e creazione d’impiego di Aics Tunisi – immettiamo credito a buon mercato nel sistema bancario e per la prima volta anche nella microfinanza proprio per favorire quel settore privato fatto di piccole e piccolissime realtà che hanno difficoltà di accesso alla finanza. Con Adapt sosteniamo quegli investimenti del settore privato che si inseriscono nella transizione verso sistemi di produzione sostenibile nei settori di pesca, agricoltura e acquacoltura”.

 

Biografia
Gianfranco Belgrano
Nato a Palermo nel 1973, Gianfranco Belgrano è un giornalista e si occupa soprattutto di esteri con una predilezione per l’Africa e il Medio Oriente. È direttore editoriale del mensile Africa e Affari e dell’agenzia di stampa InfoAfrica, per i quali si sposta spesso nel continente africano. Ha studiato Storia e Lingua dei Paesi arabi e vissuto per alcuni anni tra Tunisia, Siria e Inghilterra prima di trasferirsi a Roma. Ha lavorato o collaborato con varie testate (tra cui L’Ora ed EPolis) e si è avvicinato all’Africa con l’agenzia di stampa Misna, lasciata nel 2013 per fondare con alcuni amici e colleghi il gruppo editoriale Internationalia.
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