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Il medico Virginio Pietra

Il medico italiano Virginio Pietra: “Così ho ‘curato’ la sanità pubblica in Africa con la cooperazione”

Da 35 anni Pietra, esperto di medicina tropicale e sanità pubblica internazionale, lavora come consulente per la cooperazione italiana in vari stati della costa ovest. In questi decenni ha partecipato all’identificazione e alla formulazione di progetti, coordinando equipe mediche. Nel continente ancora oggi "resta fondamentale investire nella formazione", racconta a Oltremare

Virginio Pietra parla dell’Africa con l’autorevolezza di un autochtone, un abitante del luogo. Lui, medico italiano, nato a Genova, ha incontrato il mondo della cooperazione nel 1985, come volontario del Servizio civile in un progetto affidato dalla cooperazione italiana all’Osc Lvia in Burkina Faso. La formula del progetto, molto comune all’epoca, era quella dello sviluppo rurale integrato, con vari settori di intervento oltre a quello sanitario. Questa esperienza gli ha permesso di farsi una cultura di base sui problemi dell’agricoltura, dell’animazione sociale e dell’approvvigionamento idrico nei paesi saheliani, e anche di conoscere la sua futura moglie, insegnante. “Per 35 anni ho continuato a vivere e lavorare in Africa, quasi sempre in Burkina Faso, occupandomi in un primo tempo di lotta alla malaria, come esperto in programmi della cooperazione italiana”, racconta a Oltremare. Con l’arrivo della pandemia di Hiv/Aids ha partecipato all’introduzione nel Paese – e in particolare negli ospedali dei religiosi camilliani nella capitale Ouagadougou – dei farmaci antiretrovirali per la prevenzione della trasmissione madre-bambino del virus e per la terapia dei pazienti.

È in questo ambito che il medico ha cominciato la sua collaborazione con l’Osc Medicus Mundi Italia, lavorando su progetti finanziati principalmente dalla Cooperazione italiana. “Il mio ruolo è sempre stato prevalentemente quello di costituire e di supervisionare delle equipe di lavoro, alle quali trasmettere le procedure tecniche e l’organizzazione delle prestazioni. Ho avuto quindi un ruolo di formatore sul terreno, con qualche incarico anche in percorsi più strutturati come ad esempio quello presso la scuola per infermieri dei religiosi Camilliani e in vari master dell’università pubblica in Burkina, o in Italia, in un corso di perfezionamento in salute internazionale all’Università di Brescia”. È facile per lui ricostruire il legame tra cooperazione allo sviluppo e la medecina o semplicemente la sanità pubblica: “credo che la sanità sia il settore dove la necessità di cooperazione internazionale sia più evidente, ormai anche per i non addetti ai lavori. Prima l’Aids e più recentemente il Covid-19 hanno mostrato come le malattie non possano essere bloccate alle frontiere per decreto, e che l’unica difesa efficace sia un’azione globale di prevenzione, di vigilanza e di interventi coordinati. Certo questo è più evidente per le malattie trasmissibili, ma resta valido anche per quelle che non lo sono. Io ho sempre creduto che la salute, come l’educazione, sia un bene comune”. Per Pietra non si può pensare di vivere bene se si è circondati da analfabeti o da malati.

Il medico italiano in una struttura sanitaria in Africa

La sua avventura proseguita con Medicus Mundi gli ha permesso d’impegnarsi in una serie di programmi di cura e di prevenzione dell’Hiv/Aids e della malnutrizione infantile in una regione del Burkina Faso, il Centro Ovest, spesso colpita da siccità e carestie. Nel frattempo, però, il Paese è stato coinvolto nell’insurrezione jihadista in corso in tutto il Sahel, con una situazione di sicurezza che non permette più la presenza di espatriati al di fuori della capitale e soprattutto il lavoro di prima linea, a cui Pietra e la moglie sono abituati. “Siamo quindi rientrati in Italia anche se io ho continuato ad fare brevi missioni per conto di Aics, in Burkina e in Niger”.

Per Pietra la cooperazione allo sviluppo è “uno scambio il cui prodotto è utile per tutte le parti in causa. Limitarsi allo schema in vigore donatore-beneficiari mi sembra infatti faccia perdere molte opportunità”. Ad esempio, continua “i risultati, molto positivi, ottenuti dalla nostra cooperazione nella promozione dei farmaci generici, nell’implementazione di sistemi di allerta precoce per le epidemie e nella delega di atti medici al personale infermieristico potrebbero essere utilizzati anche per affrontare i problemi del sistema sanitario italiano”. Il motivo del suo ingresso nella cooperazione all’estero lo ricorda invece così: “Dai doppi turni alle elementari alle lunghe code alla segreteria dell’università, avevo sempre l’idea che mi mancasse spazio e di dovermelo cercare altrove. E poi come altri baby boomer ero terzomondista e anche deluso dalla piega che la società italiana stava prendendo negli anni ’80, il cosiddetto riflusso. Infine, l’Africa faceva già parte della mia geografia personale, visto che da bambino e da adolescente avevo avuto modo di visitarne alcuni paesi, viaggiando con mio padre”.

Oltre al Burkina, Pietra ha lavorato per quattro anni in Madagascar, con missioni o consulenze anche  in Togo e in contesti di emergenza come la Somalia all’inizio della guerra civile, il Ruanda subito dopo il genocidio, la Repubblica Democratica del Congo alla caduta del regime di Mobutu e il Niger – recentemente diventato anche paese prioritario per la cooperazione italiana e in cui aprirà a breve una nuova sede estera di Aics.

Da queste esperienze, la prima lezione che Pietra trae è che la principale condizione per lo sviluppo è la pace, anche se il sistema sanitario si mostra estremamente resiliente in situazioni di conflitto, perché in genere è protetto dagli stessi belligeranti, che sanno di averne bisogno. La seconda lezione è che “tutti i progressi registrati dalla sanità in Africa sono stati ottenuti principalmente grazie al personale paramedico. Ancora oggi – nonostante l’aumento del numero dei medici – i sistemi sanitari dei paesi in cui ho lavorato si basano su infermieri ed ostetriche, per cui resta prioritario investire nella loro formazione”. Infine, queste esperienze confermano che l’approccio basato sulla Primary Health Care, adottato a livello internazionale negli anni ’70, resta tuttora valido. “Nuove patologie sono apparse, nuovi strumenti di prevenzione diagnosi e cura sono disponibili, ma i principi su cui un sistema sanitario deve essere costruito – partecipazione comunitaria, accessibilità, integrazione di prevenzione e cura – non sono cambiati”.

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