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©Antonino Condorelli

Perchè il modello delle cooperative può fare breccia in Africa

A fronte di una crescita demografica esponenziale, nei Paesi africani occorre sviluppare agricoltura e industria di trasformazione: il coinvolgimento del settore privato e l’applicazione di modelli cooperativistici possono essere determinanti.

I mega trend in corso in Africa sono molto chiari. I numeri, come si suole dire, parlano quasi in maniera asettica, ma nel caso di questo continente travolgono chi li analizza perché mettono di fronte a fenomeni e situazioni dai valori dimensionali particolarmente significativi. Citando alcune di queste mega tendenze, come l’urbanizzazione o la crescita demografica, è tutto il capitolo legato all’agricoltura e alla sicurezza alimentare che viene direttamente chiamato in causa.

In una sua recente ricerca intitolata Investire in Africa: esperienze e prospettive per le Pmi agroalimentari italiane, la Fondazione E4Impact – iniziativa nata nel 2010 nell’ambito di Altis, l’Alta scuola impresa e società dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano – ha ragionato su quelli che sono i numeri da tenere in considerazione, certificati dalle grandi istituzioni internazionali. L’Africa oggi ha oltre il 60% della terra arabile non utilizzata del mondo e allo stesso tempo presenta una serie di criticità da risolvere: solo il 25% della terra arabile a disposizione è coltivata, il grado di meccanizzazione è assai ridotto, i livelli di produttività non sono nemmeno confrontabili con quelli occidentali. Attualmente il continente importa 35 miliardi di dollari di cibo all’anno, in particolare l’85% della farina consumata, il 50% del riso, il 30% del mais. Considerando il ritmo di crescita della popolazione potrebbe raggiungere i 110 miliardi di dollari già nel 2025.

I numeri, si diceva, sono impietosi, nel senso che non lasciano margini di dubbio sulla necessità di pensare ad azioni di profondo impatto. Parlando di Africa occorre poi aggiungere altri elementi: l’agricoltura è soprattutto un’agricoltura di sussistenza, fatta di piccoli e piccolissimi contadini, che non hanno accesso al credito né ai mercati, anche per gap infrastrutturali importanti dal momento che mancano le strade, mancano le catene del freddo, mancano gli impianti per la trasformazione.

Su questo quadro la Cooperazione sta ponendo un interesse crescente aprendo sempre più alla collaborazione con il settore privato, un percorso nuovo e ancora da definire ma che certo può portare a inedite forme di collaborazione lungo l’asse Europa-Africa. Non è stata quindi casuale la decisione di tenere la prima edizione di Exco, l’Esposizione della cooperazione internazionale. L’evento, organizzato da Fiera di Roma e in programma dal 15 al 17 maggio, si presenta come una sorta di punto di raccordo e confronto tra tutti gli attori, nuovi e vecchi, della cooperazione allo sviluppo, dalle agenzie nazionali e internazionali ai governi, dalle istituzioni finanziarie alla società civile, al settore privato. Il filo conduttore di Exco, guardando il programma, porta a una semplice conclusione: la cooperazione allo sviluppo, in un’ottica di sostenibilità e di impatto reale, deve essere circolare (e rispondere per esempio alle logiche del Food, Water, Energy Nexus) e tener conto di attori un tempo non prioritari. Ecco pertanto che il settore privato è oggi un partner di pari livello. Sono alle spalle gli anni in cui profit e no profit si guardavano in cagnesco e benché le difficoltà di dialogo permangano, secondo molti osservatori la cooperazione sarà sempre più una cooperazione multilaterale pur rispondendo a criteri cardine e imprescindibili per chi si muove in questo ambito.

 

 

Da questo punto di vista, se cooperazione significa anche trasferimento di know-how e modelli, un posto particolare assumono le cooperative, che in Africa si adeguano molto bene a contesti rurali in cui la terra è frazionata in piccoli appezzamenti coltivati da famiglie contadine che vivono ancora di un’agricoltura di sussistenza. L’Italia, in questo comparto, vanta eccellenze che già da tempo hanno avviato iniziative in Africa. Anche su Oltremare ne abbiamo scritto in passato citando, tra gli altri, il caso dei fagiolini del Burkina Faso commercializzati anche grazie al sostegno delle cooperative negli scaffali della Coop in Italia.

Lo scorso aprile è stata Confcooperative nel corso di una iniziativa tenuta a Roma, Seminiamo il Futuro con l’Africa, a presentare suoi progetti che hanno consentito di migliorare il reddito di comunità contadine africane mettendo in comunicazione cooperative locali e italiane, fornendo strumenti e assistenza tecnica, contribuendo in ultima istanza a creare reddito e valore aggiunto per tutti gli attori coinvolti. In particolare è stato presentato un progetto realizzato in Togo da Coopermondo, la ong costituita da Confcooperative e Federcasse e sostenuta da sei banche di credito cooperativo (Bcc del Garda, Banca Cras Sovicille, Banca del Veneziano, Bcc di Roma, Cr di Treviglio, Emilbanca). Le banche hanno erogato un finanziamento da 2 milioni di euro a due istituti locali di microfinanza che a loro volta sostengono lo sviluppo di cooperative agricole nel Paese. In questo modo, attraverso formazione, assistenza tecnica ed erogazione di microcrediti, Coopermondo ha accompagnato la creazione di oltre 150 cooperative. Tra queste c’è Cpjppab, una cooperativa che riunisce 1.018 giovani agricoltori, di cui un terzo donne, che coltivano 500 ettari di ananas biologico di varietà pan di zucchero, chiamato ‘Dolcetto’, commercializzato in Italia (circa 50 tonnellate per sei mesi) con il marchio Alce nero grazie a Brio e alla cooperativa Agrintesa. “Il progetto – ha detto Sandou Gnassingbe Assimarou, presidente del consiglio d’amministrazione della Coordination Togolaise des Organisations Paysannes – ha consentito di accrescere il benessere delle comunità locali coinvolte puntando su prodotti di qualità e sulla vendita diretta senza passare per gli intermediari. Un nesso che di fatto ha permesso di avere voce in capitolo sul prezzo finale e che ha spinto tanti produttori a unirsi in cooperativa”.

In quell’occasione – era presente anche il ministro degli Interni Matteo Salvini che ha auspicato iniziative che operino nel rispetto delle consuetudini locali – ci si è soffermati sull’importanza di portare in Africa una cooperazione che valorizzi anche l’elemento privato. Un tema su cui ha insistito l’assistant director della Fao, Roberto Ridolfi, oltre che il vicepresidente dell’Ifad, Donal Brown. Per Ridolfi, la partecipazione diretta del settore privato è necessaria per mandare in porto progetti di stazza significativa, in grado cioè di avviare processi di sviluppo sostenibili e su grande scala. Il concetto di sostenibilità, ha proseguito Ridolfi, deve essere fondamentale all’interno dei progetti di cooperazione allo sviluppo e la road map da seguire è quella data dai 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile, che vengono monitorati costantemente anche dalla Fao oltre che dalle altre agenzie delle Nazioni Unite. “In questo percorso – ha detto ancora il rappresentante della Fao, che sta tra l’altro dando il suo contributo alla realizzazione di Exco a Fiera di Roma – il modello delle cooperative è certamente un modello di sostenibilità che ben si sposa con gli obiettivi che la comunità internazionale si è posta”. Partendo anche da queste esperienze, secondo l’esponente della Fao, occorre sviluppare strategie forti tra Europa e Africa, che tengano conto anche della Cina e che prevedano azioni di de-risking in grado di incentivare le imprese a investimenti nel continente africano, anche in zone al momento meno attraenti proprio perché considerate rischiose.

Sostenere lo sviluppo di modelli cooperativi e farlo su grande scala può risultare dunque una possibile soluzione che tiene conto di realtà locali (frazionamento della terra e presenza di milioni di famiglie contadine che ora vivono di sussistenza), di aumento della popolazione, di posti di lavoro e sicurezza alimentare, della necessità in definitiva di meccanismi in grado di creare valore aggiunto.

“Parliamo di business e il punto, nel caso delle cooperative, è che il business viene gestito da un’associazione” ha detto ad InfoAfrica, senza girarci troppo attorno, Kees Blokland, fondatore e direttore di Agriterra, organizzazione olandese specializzata proprio in cooperative. “Ci sono molte situazioni nelle quali un’associazione, un gruppo di persone, unisce le forze per raggiungere un obiettivo – spiega Blokland – ci si mette insieme per vendere latte o per commerciare ortaggi. Quando ci si mette insieme per aggiungere valore ai propri prodotti, nel corso degli anni si cresce, si creano per esempio impianti per la lavorazione del latte o degli ortaggi. In definitiva, le cooperative sono un business, sono imprese come altre e si differenziano perché dietro c’è un’associazione di pari. È l’associazione il vero azionista dell’impresa ed è negli obiettivi che c’è la vera differenza rispetto per esempio a una società quotata. In un’impresa quotata l’obiettivo è rappresentato dai capitali, nel caso delle cooperative invece il punto non è tanto il ritorno in capitali quanto il valore del prodotto”.

Questa business orientation è differente quindi dalla strada percorsa da imprese di altro tipo ed è un modello particolarmente interessante per i contadini perché questi hanno prodotti da cui dipende il loro reddito e hanno lo scopo di migliorare il reddito della propria famiglia. “Quando le persone cominciano a pensare di voler migliorare le proprie condizioni di vita, il lavoro, il reddito – conclude Blokland – ecco che cominciano a pensare di mettere su delle cooperative”. Ed è allora che è importante stabilire connessioni “perché il dialogo e la condivisione di esperienze e necessità sono alla base di tutto”.

 

©InfoAfrica

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